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Ali Ağca e i nostri misteri irrisolti 

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Probabilmente non sapremo mai chi sia davvero Mehmet Ali Ağca, il terrorista turco di estrema destra, appartenente alla formazione dei Lupi Grigi, che il 13 maggio 1981 attentò alla vita di Giovanni Paolo II sparandogli a bruciapelo.
Non lo sapremo mai, anche perché il soggetto in questione non è certo un tipo che parla volentieri di queste cose: chi lo abbia mandato, quali interessi rappresentasse e chi ci fosse realmente dietro il suo gesto scellerato. Un complotto internazionale? Una vendetta del regime sovietico, ormai prossimo all’implosione, per paura che l’uomo venuto dall’Est potesse accelerare il processo di smantellamento del blocco di oltre Cortina? Un semplice pazzo fanatico, mitomane e infarcito di idee assassine, formatosi nella Turchia degli anni Settanta e disposto a tutto pur di mettersi in mostra agli occhi del mondo? Sappiamo solo che Ali Ağca, in questi quarant’anni, ha detto poco o nulla, anche se sul suo conto sono stati versati fiumi d’inchiostro e se il suo nome è stato accostato a un altro degli infiniti misteri irrisolti che gravano sul nostro Paese: la scomparsa di Emanuela Orlandi, figlia di un dipendente della Santa Sede, rapita nel giugno dell’83 e mai più ritrovata.
Un’altra cosa è certa: il Vaticano dell’epoca, fra Marcinkus e gli affari dello IOR, le vicende di Calvi e del Banco Ambrosiano, la Banda della Magliana e gli affari della mafia in giacca e cravatta, era al centro di un labirinto di interessi, intrecci, trame e poteri su cui in pochi hanno provato a far luce in questi quattro decenni, trattandosi di fili dell’alta tensione che molti, anche preparati e competenti, hanno preferito non toccare.
Il Vaticano, d’altronde, era e resta un potere reale, uno degli ultimi rimasti, e negli anni di papa Wojtyla non c’è dubbio che sia stato un centro nevralgico della Guerra fredda, capace di indirizzarne le sorti e di favorirne l’epilogo in chiave americana, attraverso il sindacato polacco Solidarność, fondato da Lech Walesa, e il convinto sostegno alle innumerevoli pulsioni anti-sovietiche che si erano messe in moto quando era ormai chiaro a tutti che si fosse esaurita la spinta propulsiva dell’Ottobre.
Ağca è stato, dunque, un tentato omicida solitario o l’esecutore di un disegno partito da lontano e, per fortuna, non portato a termine da chi vedeva in Wojtyla l’alfiere di un tempo nuovo e non propriamente esaltante? Aveva rapporti con altri poteri? Era in contatto con chissà chi? Lui, sul punto, ha sempre mantenuto il più assoluto riserbo: non una parola, non un’ammissione di colpa. Andò a trovarlo in carcere lo stesso Wojtyla, il 27 dicembre dell’83, e due anni dopo lo intervistò Enzo Biagi per Linea diretta, ottenendo un’esclusiva mondiale che, tuttavia, non riuscì a far luce su uno solo dei mille lati oscuri di un personaggio che, con ogni probabilità, si porterà nella tomba segreti inconfessabili.
L’Italia dei primi anni Ottanta era terra di frontiera: un paese allo sbando, vittima di attentati sanguinosi e violenze d’ogni sorta, desideroso di lasciarsi alle spalle il decennio del tutto della politica per tuffarsi negli anni della Milano da bere e dell’edonismo sfrenato in sala piaciona, fino a giungere a una drammatica corruzione dei costumi cui solo la crisi economica iniziata nel 2008 ha posto un argine.
Ali Ağca altro non è, pertanto, che una pedina su una scacchiera di cui, quasi sicuramente, egli stesso conosce poco o nulla, meno che mai i nomi e cognomi delle altre pedine e men che meno l’identità di chi lo muove e lo usa a piacimento, facendo leva sul suo estremismo e sulla sua innata propensione al crimine.
Ciò che abbiamo capito in questi quattro decenni è che tutto si tiene. Per il resto, bisogna sospendere il giudizio, anche se vien voglia di citare il Pasolini del ’74 che sul Corriere rifletteva a proposito delle stragi che avevano insanguinato il nostro Paese: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Il che rende necessario fermarsi qui ma non tacere.

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