La Chiesa italiana, dopo sei anni di cocciuta resistenza alla richiesta di Francesco, che la ripete dal 2015, ha accettato a denti stretti di imboccare per la prima volta la strada del sinodo nazionale. Il sinodo è l’unico momento in cui i laici sono coinvolti nelle determinazioni della loro Chiesa come i presbiteri, allo stesso identico modo. Una rivoluzione per una Chiesa che solo con il Concilio ha cominciato a scoprire la sinodalità, mentre sin lì è sempre stata gerarchica e clericale.
Sarà certamente un evento ecclesiale su tematiche ecclesiali, ma visto il momento di profonda crisi nazionale, civile e morale, sarà anche un evento culturale e quindi nazionale. Per capire la portata “culturale” di evento come il sinodo della Chiesa italiana occorre però qualche esempio capace di farci rendere conto di cosa sia la “cultura di un popolo”.
Facciamo l’esempio della Rai, tanto a lungo definita la “principale azienda culturale italiana” e che ha fatto tanti anni fa la nostra lingua comune. Esisteva, certamente, ma che qualcuno la abbia parlata tutti i giorni dentro le nostre case, magari all’ora di cena, l’ha resa davvero “nazionale”. La lingua italiana è diventata quel che è oggi grazie alla Rai, alla televisione. Sempre nel tempo del monopolio la Rai ha prodotto cultura anche in altro modo: per quanti italiani la Russia è ancora associabile e associata al volto e alla voce di Demetrio Volcic? E l’America non è forse nel nome, il saluto e la voce di Ruggero Orlando? Qui non è più soltanto il fattore oggettivo del “mezzo”, ma l’uso del mezzo a fare cultura: sono due esempi di come il “servizio pubblico” ha servito e formato il pubblico, la sua conoscenza, la sua cultura. La principale azienda culturale italiana ha fatto la nostra cultura, ci ha accompagnato nella conoscenza formando una conoscenza che è stata valore collettivo.
Passati quei tempi, entrati nell’epoca del pluralismo informativo, l’offerta più ampia non ha corrisposto a maggiore conoscenza. E’ cambiato il modello, per tutti. Più che conoscenza è stato più intrattenimento il modello prevalente. Qui non c’è un giudizio sulle nuove professionalità; il diverso modello non ha ridotto l’impegno, ma l’assenza di una storia umana con la quale ricostruire un percorso culturale, russo, americano o cinese o di altre aree del mondo, ha segmentato, ridotto, minimizzato la nostra conoscenza di massa. La televisione-intrattenimento ha ridotto il valore del racconto, amplificando semmai quello della notizia senza contesto.
L’importanza della televisione nella nostra formazione culturale non può essere staccata da altri fattori, e certamente la religione è uno di questi, ancor più importante. Anche qui l’Italia è entrata in una fase di autentico pluralismo religioso, che arricchendo l’offerta ha anche arricchito la società. Certamente però l’Italia, più di quanto sia “della Rai” nel campo della cultura televisiva, è culturalmente un Paese a prevalenza cattolica, Anche qui l’offerta religiosa più ampia e variegata ha richiesto al cattolicesimo di rinnovare il suo radicamento “culturale” nel Paese. Impresa che non sembra riuscita. Le sfide e gli snodi sono stati tantissimi, ma non sempre sono stati affrontati in modo convincente. Per restare nel parallelo che abbiamo scelto, siamo partiti dal “Peppone e Don Camillo” come esempio di un Italia tra due culture, per arrivare a “Don Matteo”, rimando a un desiderio che parla poco della realtà ecclesiale.
La sfida culturale è diventata sempre più grande negli ultimi tempi, ma la Chiesa non l’ha interpretata in termini culturali, quanto di “progetto culturale”. Davanti alla sfide della società consumista, affermatasi dagli anni Settanta/Ottanta, la nostra Chiesa ha cercato più nel clericalismo di rinforzare la sua presenza in un rapporto con il potere che dopo la stagione referendaria non rafforzasse la sua percezione di marginalità. Le grandi battaglie del tempo ruiniano sono apparse così una riaffermazione della valenza del cattolicesimo in virtù di alcuni “no” a legislazioni che intaccavano spazi: sono state le grandi questioni legate alla bioetica nelle quali fondamentalmente a una visione da “diritti dell’uomo” si contrapponeva una visione da “diritti di Dio”. Se la sinistra non si è accorta che ormai il clerico-fascismo non c’era più e che il nuovo potere consumista richiedeva una diversa contestazione pena diventare conformisti, la Chiesa non ha voluto vedere che se c’era una sfida “scristianizzante” questa non si sconfiggeva aggrappandosi alle istituzioni in nome di “linee rosse” non valicabili, ma tornando nella società. E’ come se avesse perso i suoi Volcic o Orlando, i volti capaci di incarnare storie, per diventare i depositari di un 8permille dato per dovere normativo, come il canone.
La pandemia ha posto a tutti l’enormità del problema culturale derivante da entrambe le crisi. Dominata dalla “cultura di sinistra” e della “cultura cattolica” parimenti incapaci di fronteggiare e sfidare nella società i disvalori dell’epoca consumista, la società italiana è finita in balia di una crisi valoriale che poi è diventata crisi antropologica. Il consumismo ha portato alla decrescita mentre la sinistra si ostinava a parlare di diritto alla contraccezione, ormai assodata anche per le nonne, ma incapace di dare una prospettiva di vita a chi non crede più nel futuro, nel nostro futuro. Il rifugiarsi nei diritti civili è stato così per la sinistra un fuggire dall’impossibilità di confrontarsi con i diritti sociali in un’epoca in cui ha perso contatto con il territorio, ha acquisito una cultura consumista più per necessità conformista (dopo il fallimento sovietico) che per scelta culturale e la crisi oltre che elettorale è diventata anche di identità.
La perdita di contatto con il territorio della sinistra ha riguardato anche la Chiesa che ha risposto alla crisi delle vocazioni con un accentuato clericalismo. Sempre più rintanata in una autoreferenzialità che ha prodotto burocratizzazione, centralità degli uffici, la Chiesa italiana si è così scelta una sua ridotta, quella dei cosiddetti valori non negoziabili, una teoria che sembra comportare l’esistenza di valori negoziabili.
Ora il sinodo, che Francesco vuole diffuso sul territorio, costringerà il mondo cattolico a confrontarsi con un Paese in crisi di identità. E’ questa la grande opportunità che viene offerta a tutti, non esistendo un altro riferimento culturale in questo Paese come la “cultura cattolica”. Non sarà possibile non cercare nella solidarietà le ragioni del nostro vivere insieme. Ma questa solidarietà necessaria riscoprirà territori abbandonati, emergenze rimosse, urgenze lasciate alla cura di alcuni. Fronteggiare la pandemia con questa cultura consumista e individualista è impossibile. Ognuno potrà conservare il suo orientamento politico, la sua visione sociale o economica, tutto serve fuorché un partito cattolico, perché solo riscoprendo il valore di essere insieme, di considerasi insieme, si potrà ritrovare un’identità nazionale. Questa prospettiva riportando al centro i territori e la necessaria solidarietà tra di loro darà ai cattolici il modo di riscoprire anche la solidarietà con gli altri: non avremo solidarietà senza esserlo.
Questo valore che aiuta comporta anche il bisogno di riconoscere gli altri come portatori di un qualcosa che ci arricchisce, sempre. Si coglie qui il valore profetico di quanto disse Francesco nel 2015, chiedendo per la prima volta il sinodo italiano: “L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti.” Non è questo l’unico rimedio possibile per l’Italia ridotta senza partiti, con sindacati a dir poco appassiti in ristretti ambienti di lavoro garantiti, con quartieri senza ritrovi, luoghi di riflessione comune?
Per la Chiesa la prima tentazione da sconfiggere è illudersi di potersi salvare da soli, con le proprie strutture, legalizzando e bucraticizzando la Chiesa. La seconda tentazione da sconfiggere è lo spiritualismo intimistico. Dunque la vera sfida, quella che riguarda tutta Italia, è quella indicata anni fa da Bartolomeo Sorge sulla rivista che lo aveva reso uno dei più autorevoli intellettuali italiani, La Civiltà Cattolica: “la difficile sfida – richiamata dal Papa anche a Firenze – meritevole di essere affrontata in un autorevole dibattito sinodale riguarda le implicazioni etiche e comportamentali dei fedeli, all’interno della crisi spirituale e culturale senza precedenti in cui si dibatte l’Italia. La Chiesa – ha detto papa Francesco – sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini”. I credenti sono cittadini…. Vivono con noi! Sorge scriveva prima della pandemia, è chiaro che oggi questa urgenza è ancora più evidente e decisiva per tutti. Che Chiesa servirebbe? Un’intervista di padre Antonio Spadaro a Giuseppe De Rita fissa i termini di cosa potrebbe essere domani ricordandoci quello straordinario momento del Primo Convegno, il 1976: “ Quando mi misi al lavoro per la preparazione del Primo Convegno (ecclesiale, unico evento della storia ecclesiale italiana aperto ai laici), dentro l’ambiguità difficile di quella società, vedevo serpeggiare nella Chiesa italiana un’inarrestabile tendenza al masochismo, che assumeva prevalentemente due connotazioni: la prima, quella di una Chiesa che andava al macello, sbagliando più o meno coscientemente tutte le sortite pubbliche con una baldanza di atteggiamento che definivo «fanfaniana» e che contrastava con la problematicità un po’ angosciata che filtrava dalla Santa Sede. La seconda forma di masochismo erano le catacombe minoritarie delle riaffermazioni di principio, delle testimonianze, dei richiami teologici, delle obbedienze, delle comunioni ecclesiali con i superiori, con atteggiamenti di fanatismo di difesa, di quadrato, senza grinta di conquista e di futuro, senza speranza, potrei dire. Ecco, questo mi sembra fosse il punto emotivamente più evidente: la mancanza quasi assoluta del senso del futuro e della speranza: mancanza stravolgente per la Chiesa che, se vive di storia e tradizione, ancor più vive, o dovrebbe vivere, di futuro e di speranza”.