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Il giorno in cui Conte si prese i 5 Stelle

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Ricordo bene quando, nel giugno del 2015, regnante Renzi, scrissi un articolo per chiedere scusa al M5S. Lo avvertivo come un dovere morale, specie se si considera che avevo deciso, dal punto di vista giornalistico, di avviare con loro un dialogo proficuo e uno scambio di opinioni che non tralasciava in alcun modo la critica ma accantonava il pregiudizio e lo sberleffo: vizi in cui troppo spesso la nostra categoria incappa quando si trova al cospetto una novità che non riesce a incasellare secondo i vecchi schemi. Sono trascorsi sei anni e non mi sono mai pentito di aver scritto quel pezzo.
Sono stati sei anni duri, difficili, nel corso dei quali il degrado della politica ha raggiunto, si spera, l’apice e il declino della società, acuito negli ultimi due anni dalla pandemia, ha finito col travolgere anche le istituzioni. I 5 Stelle, dal canto loro, hanno commesso una miriade di sbagli ma hanno avuto anche il non piccolo merito di saper crescere. Vien voglia di dire, sperando di non cadere in errore, che sono stati una delle poche forze politiche che hanno avuto il coraggio di ammettere pubblicamente di non poter andare avanti seguendo i canoni che ne avevano caratterizzato la nascita e i primi sviluppi. Lo ha affermato senza remore Conte lo scorso 1° aprile, assumendone di fatto la guida e mandando in pensione alcuni dogmi, dall’uno vale uno al rifiuto di qualsivoglia posizionamento politico, che avevano contraddistinto la creatura grillina per un decennio. Segnali di cambiamento, del resto, si potevano cogliere già sei anni fa, quando purtroppo, però, il PD era troppo impegnato a guardarsi l’ombelico e a mitizzare le gesta di un personaggio di cui ora, forse, si comprende l’effettiva natura e, soprattutto, il vero collocamento politico. A tal riguardo, mi permetto di dare un suggerimento a Enrico Letta, di cui nel frattempo sono stato allievo: lascia perdere ogni dialogo con Italia Viva. Non ha senso ed è controproducente. Un centrosinistra di chiara matrice ulivista deve includere i 5 Stelle e guardare a sinistra, al movimentismo, all’ecologismo e a tutto ciò che si muove nel grembo della società, non al passato di un’esperienza che ha dilaniato il centrosinistra stesso e condotto il Partito Democratico alla peggiore sconfitta della sua storia.

Quanto ai 5 Stelle, hanno sbagliato a governare per oltre un anno con la Lega, anche se non potevano fare diversamente, a causa della preclara strategia dei pop corn del celebre sostenitore del Rinascimento saudita, e hanno commesso il “crimine” di sfregiare il Parlamento con un taglio dei parlamentari che umilia il ruolo stesso delle camere e le rende infinitamente più deboli al cospetto del governo, mettendo a repentaglio la tenuta democratica del Paese e inficiando il bisogno di rappresentanza di una cittadinanza sempre più in difficoltà e bisognosa di ascolto e comprensione. Senza contare le smagliature, le espulsioni insensate e il non ancora risolto ruolo della Casaleggio Associati e del figlio dell’ideologo grillino, la cui posizione sembra ormai incompatibile con la svolta contiana all’insegna del buonsenso. E che dire del limite dei due mandati? Si tratta di una mostruosità che umilia la competenza ed è nemica degli elettori; una barbarie che anche il PD farebbe bene a cancellare dal proprio orizzonte, benché i democratici prevedano tre mandati, restituendo alle persone il diritto di scegliersi i propri rappresentanti, così che in Parlamento vadano coloro da cui i cittadini intendono farsi rappresentare, sia per una legislatura che per un quarantennio, risolvendo anche il problema degli eccessivi cambi di casacca senza ulteriori interventi pericolosi e lesivi dei principî costituzionali.
Giuseppe Conte ha di fronte a sé una sfida immane: dare un avvenire a un soggetto nato per distruggere e ora chiamato a costruire, senza perdere pezzi e senza umiliarne le convinzioni profonde e radicate che, per quanto per lo più erronee, costituiscono il patrimonio genetico di quella collettività. È chiamato, insomma, a fornire un’adeguata cultura di governo a una compagine la cui casa naturale, finora, è stata l’opposizione e che ancora, ad esempio, non ha ben compreso la logica secondo cui un’alleanza si basa sul fatto di procedere insieme anche a livello locale, altrimenti torniamo al mero accordo che ha fiaccato il Conte II e dato l’impressione di una maggioranza che andava avanti più per inerzia e per paura di Salvini e Meloni che per effettiva convinzione.
A Conte e Letta spetta, dunque, l’ingrato compito di dire espressamente ai rispettivi apparati, ai capataz, alle correnti e agli spifferi con cui entrambi dovranno, prima o poi, scontrarsi aspramente che o alle Amministrative PD e 5 Stelle, o come vorranno chiamarsi con l’avvento dell’ex presidente del Consiglio, si presenteranno uniti, convergendo su un candidato comune, oppure l’accordo sarà già finito prim’ancora di cominciare. L’idea che si possa andare ognuno per conto proprio e poi, al massimo, far fronte comune al ballottaggio, dopo essersene dette di tutti i colori e aver definito i sindaci uscenti dell’una o dell’altra formazione con epiteti che rendono impossibile qualsivoglia convergenza, è semplicemente demenziale, la negazione stessa della politica e di un percorso comune da intraprendere al più presto.

Letta e Conte devono imporsi, dire chiaramente che in tutte le città, a cominciare da Roma e Milano, occorre un nome in cui entrambi possano riconoscersi, anche a costo di accantonare l’esistente e di compiere quelle scelte dolorose ma necessarie cui è chiamato un leader nel momento in cui si assume la responsabilità non di gestire lo status quo ma di provare a cambiarlo radicalmente.
Anch’io, al pari di Letta, mi mangio le mani per non aver compreso prima i 5 Stelle, il loro bisogno di pulizia, onestà, cambiamento, e credo che se oggi si può pensare di tracciare un nuovo orizzonte valoriale, in netto contrasto con il quarantennio liberista che abbiamo alle spalle, il merito sia più loro che della cosiddetta sinistra. Sono convinto che la pensi, in parte, così lo stesso Letta, ma adesso sta all’ex movimento, divenuto finalmente un partito a tutti gli effetti, non cullarsi sugli allori ma andare oltre, guardare avanti, migliorare e definire in maniera più netta la propria collocazione politica e il proprio ruolo nel decennio che si è aperto con la pandemia ma che al termine, fra nove anni, ci avrà condotto nel cuore del Ventunesimo secolo. Sta a loro selezionare in base a criteri più saggi una classe dirigente all’altezza. E sta al PD, sull’altro fronte, smetterla di fare la faccia malmostosa e di sentirsi superiore: sia perché non lo è sia perché, se i 5 Stelle hanno sbagliato molto, loro, dal 2013 in poi, hanno sbagliato praticamente tutto, salvo provare a salvarsi alla disperata richiamando in patria colui che avevano frettolosamente accantonato per gettarsi mani e piedi in un’avventura il cui esito non poteva essere diverso da quello che abbiamo visto.
A Letta e Conte spetta il compito di scrivere una pagina nuova, completamente diversa rispetto al passato. Avranno contro consorterie, interessi, lobby, grumi di potere inscalfbili, cacicchi di varia natura, ras locali e cialtroni d’ogni sorta. Il cacciavite proprio della miglior tradizione morotea stavolta non basta. Occorre una determinazione senza precedenti e, per fortuna, con i rispettivi discorsi di insediamento alla guida dei due soggetti, hanno dato entrambi l’impressione di averlo capito.
P.S. Dedico quest’articolo ai gloriosi centoventicinque anni della Gazzetta dello Sport, narratrice di sogni, speranze e campioni che non finirà mai di farci emozionare.

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