E’ impossibile dimenticare il 19 marzo 2002, il giorno in cui fu ucciso, per mano delle Nuove Brigate Rosse, Marco Biagi. E’ impossibile per me dimenticarlo come cittadino che da sempre si augura di poter vivere in un paese democratico, come bolognese perché fatti come questo ancora una volta colpiscono, oltre alla famiglia, Bologna, la città della strage alla Stazione il 2 agosto 1980. Il 19 marzo 2002 è indimenticabile perché segna anche la fine delle inchieste di Enzo Biagi che realizzavamo con la nostra troupe in giro per il mondo. Là dove accadevano i fatti.
Esattamente un mese dopo, il 18 aprile, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, dalla Romania, emanò l’editto bulgaro contro Biagi, Luttazzi e Santoro, accusandoli di aver fatto “un uso criminoso della tv”. Da quel giorno cambiò anche la nostra vita professionale, di lì a poco i nostri programmi vennero cancellati e le redazioni chiuse. Il 19 marzo eravamo atterrati da qualche minuto all’aeroporto di Malpensa quando squillò il mio cellulare, era Bice la figlia di Enzo, che ci informò dell’assassinio del giuslavorista dell’Università di Modena-Reggio Emilia, autore del “Libro Bianco sul mercato del lavoro”, avvenuto poco prima. Enzo conosceva bene il padre di Marco, Giorgio Biagi, anche lui partigiano e dopo la Liberazione sindaco di Lizzano in Belvedere di cui Pianaccio, il paese che ha dato i natali a Enzo, è frazione. Rientravamo da Israele, avevamo realizzato quello che sarebbe stato il nostro ultimo “Speciale il Fatto: Qualcuno risorge a Gerusalemme”, in onda la Vigilia di Pasqua che quell’anno cadeva il 31 marzo.
Ancora una volta eravamo andati in quella terra perennemente sconvolta dal conflitto israeliano palestinese per raccontare alcune realtà che avrebbero potuto costituire la base per la convivenza tra i due popoli. Incontrammo lo scrittore David Grossman che da sempre crede in una possibile pace anche dopo aver perso nel 2006 il figlio ventenne Uri ucciso da un missile anticarro durante un’operazione delle forze di difesa israeliane nel sud del Libano. Quest’anno in ricordo di Marco Biagi non vi sarà la tradizionale biciclettata in sua memoria che avrebbe dovuto ripercorrere l’itinerario che tutti i giorni, ritornando dall’Università in treno, faceva dalla stazione alla sua abitazione nella piazzetta a lui intitolata, in pieno centro storico, dove avvenne l’efferato agguato. Gli esecutori furono: Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, Diana Blefari Melazzi (morta suicida in carcere nel 2009) condannati definitivamente all’ergastolo, mentre a Simone Boccaccini la pena è stata ridotta a 21 anni grazie alle attenuanti generiche.
Un commando di cinque vigliacchi terroristi contro un uomo solo e indifeso a cui, nonostante le minacce di morte ricevute da quando era consulente prima del ministro Piazza poi di Maroni sulla “sostenibilità del lavoro e dei processi economici e produttivi”, gli era stata tolta la scorta che probabilmente lo avrebbe salvato. Chi lo decise quella morte la porterà per sempre sulla coscienza. Lo uccisero con sei colpi di pistola. La stessa che nel 1999 aveva freddato un altro giuslavorista, Massimo D’Antona, consulente del ministro Antonio Bassolino per la riforma del mercato del lavoro, già sottosegretario nel Governo Dini. Cosa hanno ottenuto i cinque terroristi? Niente. Hanno rovinato delle vite e tra queste la loro, le leggi, che oggi portano il nome di Biagi, sono state fatte lo stesso e forse chi è venuto dopo le ha anche peggiorate. Il prossino 24 novembre Marco Biagi avrebbe compiuto 71 anni. Uno con la sua visione riformatrice in un momento di grave incertezza per il mondo del lavoro su come pianificare il futuro, soprattutto per i giovani, sarebbe stato importante. Non si può vivere con i se e con i ma, una cosa è certa, come ha scritto il figlio Lorenzo, quella di Marco Biagi è stata “una morte assurda, inaccettabile e che si poteva e doveva evitare”.