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Centro Pio La Torre: Donne uccise due volte. Violenza di genere tra narrazioni mediatiche e sentenze giudiziarie

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Uccise due volte, prima assassinate da un compagno che sopprime con furia ogni scampolo di autonomia e poi da una percezione distorta pronta a dare lo stigma infamante del “se l’è cercata”. È il destino comune delle vittime dei femminicidi in Italia, un fenomeno analizzato nel corso dell’ultima videoconferenza del Progetto educativo antimafia del centro Pio La Torre che ha coinvolto centinaia di scuole da Nord a Sud Italia.

A discutere di “Violenza di genere e femminicidio tra narrazioni mediatiche e sentenze giudiziarie” oggi sono state la sociologa dell’Università di Palermo, Alessandra Dino, la sua collega dell’Università di Bologna, Pina Lalli, la giornalista Lidia Tilotta, la vicepresidente del centro La Torre, Rita Barbera, insieme al presidente Vito Lo Monaco.

“È un fenomeno trasversale – ha detto la sociologa Dino – che riguarda anche ceti molto scolarizzati. Da una ricerca svolta con una onlus siciliana è emerso che il maggior numero di richieste di intervento a Palermo è arrivato dal quartiere Libertà, un quartiere ‘bene’ della città”. Dino ha anche parlato di “Un codice penale italiano a lungo misogino, che ha trattato in modo diverso uomini e donne, eliminando tardivamente, nel 1981, l’istituto del matrimonio riparatore” e di recenti sentenze che, a fronte di una violenza spesso efferata, non hanno riconosciuto le aggravanti per futili motivi per via della gelosia”.

“Assistiamo ancora a questo stereotipo della passione ferita che funge da movente”, ha detto Pina Lalli che ha presentato una ricerca secondo la quale ad avere maggior risalto sulla stampa sono quei casi, la minoranza in realtà, in cui l’omicida è un partner occasionale, quando il maggior numero di femminicidi si ha all’interno di relazioni stabili o rapporti di parentela. Ma sono clichè lenti a morire, come quello che delega la funzione dell’accudimento esclusivamente alle donne. Non è un caso se in una città come Bologna dove il tasso di occupazione femminile è comunque alto – ha ricordato Lalli – durante il lockdown sono state più le donne degli uomini a chiedere di interrompere il lavoro per potere assistere i propri familiari. Mancano ancora politiche economiche e sociali attive”.

La giornalista Lidia Tilotta ha sottolineato la sensibilizzazione raggiunta oggi nei confronti di “certe parole abusate in passato come “baby squillo” o “raptus” ma esiste ancora l‘hate speech e non è facile fare un’informazione corretta quando il flusso di notizie è sempre più ampio e accessibile e il tempo incalza”. Un processo che accelera una sorta di “obsolescenza collettiva” e che richiederebbe invece un discorso più articolato “sull’educazione sentimentale da dare, a partire dalle scuole”.

“Nel corso dell’incontro di oggi sono state oltre 100 le domande pervenute dagli studenti, su vari fronti: dalla mercificazione del corpo femminile al ruolo delle donne nelle nuove mafie – ha detto Vito Lo Monaco, presidente del centro studi – e il fatto che il Miur abbia riconosciuto la validità delle nostro progetto come insegnamento di educazione civica ci incoraggia nella nostra azione di volontariato. Un fronte comune di sensibilizzazione portato avanti con i docenti e con il Dap che ha fatto partecipare anche le scuole carcerarie e che si concluderà il 30 aprile”.


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