In questi ultimi giorni, assistiamo ad un malcelato scetticismo autolesionista nei confronti del tentativo di Mario Draghi di formare un governo di “salvezza pubblica” per l’Italia, specie nella Sinistra “dura e pura” e negli ambienti grillini. Quand’anche non esplicitamente, alcuni esponenti del centrosinistra piddino e delle ali estreme parlamentari in cuor loro si augurano di veder inciampare il futuro governo Draghi al primo provvedimento “divisivo” tra destra e sinistra, tra Lega, Forza Italia, 5Stelle e PD, come: riforma della giustizia e i termini di prescrizione; il reddito di cittadinanza sostituito e salario minimo garantito; riforma delle pensioni e abolizione di quota 100; riforma fiscale senza Flat Tax né patrimoniale; revisione in senso più centralista del titolo V della Costituzione, in seguito al fallimento delle Regioni nella pandemia.
Insomma, il Welfare rivisto e corretto secondo un economista neo-keynesiano, con studi dai Gesuiti alle spalle, un “socialista liberale” come ama definirsi, un allievo prediletto del grande economista scomparso nel nulla Federico Caffè (assertore delle idee economiche di Keynes, forse autosegregatosi in un convento cistercense di clausura nel 1987), un combattente critico del neo-liberismo monetarista e delle politiche di rigore.
Per conoscere il “Draghi-pensiero” e capire quali sono le sue priorità per rinnovare il nostro paese in temi di sviluppo economico, sociale e culturale, basterebbe andarsi a rileggere le sue Considerazioni Finali, fatte alle Assemblee annuali di Bankitalia, quando era Governatore: riduzione delle tasse e riforma del sistema fiscale; riforma della pubblica amministrazione; revisione del sistema pensionistico; un nuovo regime del mercato del lavoro con sostegno ai redditi e agli ammortizzatori sociali; sostegno alle imprese da parte delle banche, che devono però ridurre la loro presenza nei capitali e nelle quote azionarie; modernizzazione del sistema scolastico.
Fondamentale e innovativa la sua proposta sulla suddivisione del Debito pubblico in “buono” (investimenti produttivi, sociali, occupazionali e infrastrutturali) e in “cattivo”, ovvero impieghi di denaro pubblico verso strumenti temporanei, assistenziali e le spese correnti. Una strada per arrivare probabilmente alla ristrutturazione dei Debiti statali e alla loro parziale cancellazione, previa la revisione dei Trattati europei.
Draghi ha uno stile di lavoro e decisionale fuori dagli schemi italiani. In tutto e per tutto il suo è un metodo che potremmo definire anglosassone. Per un decennio abbiamo potuto osservarlo da vicino professionalmente, da Direttore generale del tesoro a capo del CIPE e infine da responsabile del Comitato per le privatizzazioni IRI. Questo suo metodo, è talmente democratico nel senso più profondo del termine, per cui anche chi non è esperto del tutto su alcuni argomenti, può comunque suggerire proposte, in virtù delle sue intuizioni intellettuali.
Sarà dura lavorare con lui da parte di esponenti politici che invece vivono sulle cooptazioni, le autoreferenzialità, gli interessi personali o di partito. Ma Draghi questo vizio italico della nostra classe politica, lo conosce da decenni. Fin da quando, come direttore generale del Tesoro, dirigeva anche il CIPE (Comitato per la programmazione economica), il maggior centro di spesa dello Stato, da dove partono i finanziamenti alle iniziative decise dai vari governi.
Draghi usa scegliere il suo staff per meriti, curricula esaminati con minuziosità, senza farsi condizionare da “conoscenze” esterne, raccomandazioni o simpatie politiche. Nelle riunioni è abituato ad ascoltare tutti, anche i collaboratori ancora in fondo alla gerarchia. Le decisioni operative vengono prese in prima persona da lui, dopo averle condivise con lo staff, che gli ha sottoposto i vari report.
Un “primus inter pares”, che comunque si prende interamente le sue responsabilità e difende le sue scelte in prima persona, senza mai addossare allo staff errori o sconfitte. I successi invece vengono condivisi. Per questo, ovunque abbia ricoperto incarichi di vertice (al Tesoro, in Bankitalia, alla BCE), ha lasciato un ricordo di efficienza e di cordialità. Ed ha permesso, da buon professore universitario, di far crescere quanti collaboravano con lui, ha loro aperto le porte di future carriere per merito, non per “spirito di cordata”.
Metodo imparato quando studiava al MIT di Boston con professori “premi Nobel per l’economia” come Franco Modigliani e Robert Solow, poi perfezionato con Ciampi e gli altri economisti ribattezzati “Ciampi boys”.
Il problema della Sinistra italiana è di non perdere l’ultima occasione d’oro, storica, per rifondarsi, anziché trattare con la “puzza sotto il naso” e l’atavica diffidenza ideologica Draghi. Con lui potrebbe concretizzarsi una Sinistra liberale, basata sulle ricette aggiornate del pensiero di Keynes, abbandonando le superate teorie marxiste o quelle discriminatorie neoliberiste alla Blair e alla Clinton.
Questo paese non ha mai fatto una vera rivoluzione liberale sia nel creare istituzioni efficienti e non burocratiche, come nel resto d’Europa, sia nell’instaurare un sistema economico-finanziario-fiscale e del mercato del lavoro liberale e progressista. Draghi ha la possibilità di porre al centro della politica riformatrice il concetto di “cittadino” e non di “suddito”, il consolidamento della borghesia media produttrice e non assistenzialista, la sburocratizzazione dello Stato, abolendo i meccanismi sabaudi e democristiani della pubblica amministrazione più inefficiente e d’Europa.
L’occasione, dunque, per la Sinistra di reinventarsi passa per l’ultima volta. Già perse l’attimo fuggente tra la fine degli anni Ottanta e inizi Novanta, in piena Tangentopoli e disfacimento della Prima Repubblica, rifiutando di aprirsi e cooperare con la nascente Lega Nord di Bossi, ritenendola “antisistema” e irredentista. Spingendo così il suo elettorato popolare, operaio, il ceto medio produttivo e commerciante verso un’alleanza con Forza Italia di Berlusconi, in quel tempo nuovo “crogiuolo interclassista” sorto sulle ceneri dell’alleanza democristiana e socialista, travolta dagli scandali e dalla corruzione dilagante. Qualcuno si ricorda forse che fu proprio la Lega di Bossi a far cadere il primo governo Berlusconi, aprendo la porta al governo Dini e poi portando il paese alle elezioni vinte dall’Ulivo con Romano Prodi?
Ma la miopia del centrosinistra spinse nella schiera avversaria del centrodestra la Lega, che per sua capacità politica e identità sociale ha poi conquistato tutte le regioni più produttive del Nord.
Stesso processo di autodistruzione e miopia la Sinistra autoreferenziale e in cerca di un’identità l’ha condotto verso il Movimento 5 Stelle, facendolo così slittare verso una deriva antisistema e prepolitica, fino a crearne le basi per il suo ultimo successo elettorale e l’alleanza temporanea con la Lega di Salvini nel primo governo Conte.
Se questo tentativo non andasse pienamente in porto, se gli egoismi identitari che sempre i partiti di Sinistra antepongono al bene del paese prevarranno, il governo Draghi avrà una breve vita. Forse durerà fino all’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Ma per l’Italia sarebbe come precipitare nel declino economico e sociale, nel baratro dell’oscurantismo culturale e politico, aprendo la stagione di eventi irredentisti e violenti. La Sinistra perderebbe così l’occasione storica di rifondarsi, acquisendo i principi del liberalismo keynesiano per approdare ad un socialismo riformista, come in qualche modo auspicavano Gramsci e Gobetti negli anni Venti del Novecento. Gettando definitivamente alle ortiche l’assistenzialismo clientelare cattolico, democristiano, e il pauperismo livellatore comunista marxista-leninista, che molti danni hanno provocato a questo paese, alimentando odio e invidia interclassista, senza eguali in Europa. Oggi, si è davanti a scelte storiche, ad una “Rivoluzione liberale”, per oltrepassare la soglia della vecchia politica degli inciuci, arruffona, clientelare e corrotta, ed entrare finalmente nel novero delle democrazie liberali.