L’onda della risacca ha depositato sulla bella riviera di Rimini i libri del Centenario Felliniano che galleggiavano sui frangenti, e con provvidenziale tempismo, a ridosso del 20 gennaio, la Cineteca rivierasca guidata da Marco Leonetti e Nicola Bassano ha organizzato una maratona di tre giorni in cui una ventina di autori si sono alternati in streaming a parlare dei loro testi. A guidare le incalzanti tornate tre esperti di cinema, Laura Delli Colli, Jonathan Giustini, Roy Menarini; una riunione da remoto, come si usa ormai in mancanza di meglio, intitolata FELLINI CALLS, aperta a chiunque volesse assistervi. L’idea, malinconicamente festosa in tempi depressivi, è stata un escamotage per recuperare sotto riflettori a tempo, 15 minuti ciascuno, alcuni titoli già scivolati sulle sponde del Lete.
Iniziamo da “L’apparizione e l’ombra”, che Bruno Roberti ha dedicato con trepida devozione a Federico Fellini toccando il tema forse più enigmatico, il rapporto dell’autore con la psicanalisi e l’inconscio; e azzardano una lettura attenta dei film attraverso questo doppiofondo nascosto e non facile da scovare. Roberti è uno studioso delle profondità, un docente universitario all’Università della Calabria, autore di svariate pubblicazioni sul cinema e sul teatro, e ha stampato questo ultimo lavoro con le edizioni dell’Ente dello Spettacolo. Antepone al suo trattato una corposa, affascinante introduzione a cuore aperto, intitolata senza ambagi: “Fellini, una vita sognata”, nella quale passa in rassegna l’intera opera, titolo per titolo. E tanto per mettere le cose in chiaro rievoca quasi subito un’affermazione di Federico:
«Non è la memoria che domina i miei film. Dire che i miei film sono autobiografici è una disinvolta liquidazione, una classificazione sbrigativa. Io mi sono inventato quasi tutto; un’infanzia, una personalità, nostalgie, sogni, ricordi: per il piacere di poterli raccontare».
Si affonda con voluttà nello spazio che Roberti dedica a Il Bidone, film sdegnoso ma anche centro focale nell’ispirazione di Fellini. Una storia che funge da cartone preparatorio dei capolavori immediatamente successivi, La dolce vita compresa. Da esso per partenogenesi nasce anche Le notti di Cabiria, le amare avventure di una prostituta che prende miracolosamente corpo e anima – testimonia Federico – durante le riprese all’Acquedotto Romano. La donna si chiamava Wanda, e accade che parlando con lei il regista materializzi il personaggio approssimativamente concepito al tempo de Lo Sceicco Bianco. Per Il Bidone, analizzato in stato di grazia, Roberti sposa le intuizioni di J.-M. Mejan il quale è in grado di fargli da specchio con intuizioni straordinarie:
«L’albero è un ricettacolo soprannaturale, che capta follia e magia degli elementi, è il punto d’incontro tra terra e cielo, è un elemento fondamentale nell’immaginario felliniano. È ciò che rende possibili i nostri desideri più aerei, soprattutto allorché funge da trampolino o fornisce appiglio a trapezi e altalene, allo stesso tempo oggetti circensi e metafore del librarsi in volo. L’albero è come un personaggio che si può interpretare: si veda Gelsomina che imita la posizione dell’albero e ascolta il canto dei pali del telegrafo quali metamorfosi arboree».
Il primo albero d’alto fusto lo incontriamo non a caso nella pineta di Fregene, a sostegno dell’altalena vertiginosa sulla quale appare magicamente Alberto Sordi-Sceicco Bianco.
È liberatorio spaziare in un libro così sincero e così profondo; Bruno Roberti incarna il prototipo dello studioso che si annulla in Fellini, che vorrebbe diventare la sua anima. E a tratti ci riesce. Ha anche collaborato alla sceneggiatura di un film, di prossima in uscita, diretto da Catherine McGilvray, un’autrice di finissima cultura junghiana, intitolato per l’appunto Fellini e l’ombra. Un’associazione indispensabile alla quale ci riconduce un’esplicita dichiarazione di Federico:
«È il rituale cinematografico che è, in sé, profondamente femminile. Questo modo di essere insieme nel buio, in una situazione quasi placentare, questo gioco di ombre e luci, queste immagini giganti, trasfigurate. D’altra parte al cinema si effettua una proiezione, no? E la donna – per l’uomo – non è una sorta di schermo su cui proiettare i propri fantasmi?»
Libro di segno del tutto opposto è invece “Amarcord Fellini” di Oscar Iarussi, edizione Il Mulino. Pagine ariose, squillanti, narrative, che radunano docilmente in gregge le cento invenzioni di un estroso alfabeto felliniano. Iarussi, giornalista e scrittore di cinema, rinvigorisce un’antica tradizione letteraria che risale ai padri della critica, ci ricorda l’indimenticabile Pietrino Bianchi da cui parrebbe assorbire l’abbandono alla vena affabulatoria, e ci attrae con facilità alla scoperta di un arcipelago delle meraviglie. Il suo procedere è un concerto “andante con brio”, che utilizza le lettere dell’alfabeto come fossero i singoli strumenti di una grande orchestra sinfonica. Il gioco viene del resto rivelato fin dalla prefazione, nella quale l’autore riporta il rimpianto composto da Roberto Benigni, in rime alternate e baciate, alla scomparsa de Maestro riminese:
Dolce come Verlaine, come Beatrice
E maledetto come James Dean
Casto della purezza di Euridice
Intelligente come Rin Tin Tin.
M’han detto che era morto, ebbi uno shocche
Come se fosser morte le albicocche.
Iarussi gioca per tutto il tempo con il lettore, lo avvince lo lusinga lo spreme, lo trascina in una danza maliosa. Lo seduce in nome di “Un sogno lungo un secolo”, porta allo scoperto dati e statistiche stupefacenti:
“Più di 13.600.000 persone nel corso del 1960 accorrono in sala per La dolce vita, che secondo i dati Siae è il sesto tra i film più visti in Italia dal 1950 a oggi nella classifica dominata da Guerra e Pace di King Vidor” Ci rammenta con sorridente perfidia le malignità dei colleghi togati:
De Sica: “La dolce vita è una cafonata, è il sogno di un provinciale”. Visconti: “Ma quelli sono nobili visti dal mio cameriere”.
Ci spiazza con l’innocenza di Fellini:
«Non è necessario che le cose mostrate siano autentiche. In genere è meglio che non lo siano. Ciò che dev’essere autentico è l’emozione nel vedere e nell’esprimere».
Il racconto dei film è ricolmo di annotazioni sagaci di tutti i generi, perfino sulla moda:
“Nel film Mastroianni non indossa il maglione «dolcevita» a collo alto e rivoltato. Ma tutto il mondo è convinto del contrario e leggerete ovunque che il nome deriva dal film. Il che naturalmente è falso, quindi fellinianamente vero”.
Ha ragione, il dolcevita era indossato dal pettegolo gay di Via Veneto.
Ci intrattiene con battute d’alto bordo, scavate imprevedibilmente dalle canzoni di Bob Dylan. John Kennedy chiede al menestrello cosa serve per “far crescere il Paese”, e Dylan gli risponde laconico: “Brigitte Bardot, Anita Ekberg e Sophia Loren”.
Ci inchioda infine quando rilancia citando i caustici aforismi di Ennio Flaiano: “Un giorno il fascismo sarà curato con la psicanalisi”. O ancora più icastico: “L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori”. E anche ustionante: “Ha fatto un altro film? Non vedo l’ora di perdermelo”.
Avete capito senza possibili equivoci che si tratta di un libro survoltato, capace di istruire intrattenendo. Come non restare ammaliati e stupefatti di fronte alle citazioni del grande Maestro salutifere come un ricostituente:
«Credo che l’arte sia questo, la possibilità di trasformare la sconfitta in vittoria, la tristezza in felicità. L’arte è un miracolo…»
Tocca ora a Frank Burke, lo conoscete? Uno dei migliori esperti di Fellini nell’area culturale anglosassone. Scomparso Peter Bondanella, instancabile chiosatore del Maestro, Burke resta al momento l’unico storico fuori patria dell’artista riminese. In verità, anche se di Bondanella raccoglie idealmente il testimone per la staffetta, Frank Burke già da diversi anni si è accreditato come il più autorevole e attento studioso di lingua inglese. Così arriva puntuale in libreria, per i tipi di Intellect (Bristol UK/Chicago USA), il suo FELLINI’S FILMS AND COMMERCIALS – From Postwar to Postmodern: l’intera opera di Federico passata ai raggi X di un’analisi minuziosa ma mai scolastica, anzi decisamente creativa.
Burke ama affabilmente Fellini – non si può scrivere tanto di un regista senza amarlo – pur riuscendo a mantenere un salutare distacco emotivo. Lo si apprezza per il suo approccio elegante e scanzonato, molto british, sebbene lo studioso sia originario di New York che peraltro è la più europea delle città americane, se vogliamo fidarci di Woody Allen.
Frank è appassionato, intelligente, possiede un acume cinematografico raro e parla quasi perfettamente l’italiano. Fellini è il suo pasto preferito, che degusta in ogni nuance. Nel 2020 all’inizio del Centenario, intorno a Natale era uscito il suo “A Companion to Federico Fellini”, una poderosa rassegna, abilmente antologica, di tutti gli studiosi in lingua inglese attratti dal regista di 8 ½; un panorama che definire esauriente è riduttivo, dal momento che siamo di fronte a un regesto, indispensabile per stabilire dove si collochi, partendo da sponde opposte e comuni, la linea di confluenza tra le due correnti dell’Oceano Atlantico, quella americana e quella europea.
Quest’anno il professore emerito della Queen’s University, in Canada, rilancia dunque il suo studio più noto con titolo ampliato “Fellini’s Films and commercials”. Ma la novità non consiste soltanto nella sezione dedicata agli spot pubblicitari di Fellini passati al setaccio, tre per la Banca di Roma e i precedenti per Campari e Barilla; in realtà Burke coglie l’occasione per aggiornare la propria personale posizione sull’opera dell’autore che, come tutti i classici, infallibilmente si rinnova con l’età di chi la studia, la guarda, si incanta. E come spesso capita, l’apprezzamento aumenta con il gravare delle primavere. Il newyorkese Burke, che nei suoi splendidi 76 anni, zainetto in spalla, può percorrere a piedi a Roma distanze chilometriche senza battere ciglio, con questo suo libro ben rodato ci conduce a braccetto per i Campi Elisi felliniani in uno stile fluido e amichevole, “friedly”; dal momento che da buon americano scrive per farsi capire dai lettori e non per gareggiare con i colleghi patentati. L’operazione era nata in altre stagioni da una premessa:
“In ultima analisi, come spiego con maggior dettaglio nel volume, la prima edizione era stata scritta nel bel mezzo di una impressionante rimozione di Fellini da parte dalla comunità accademica in lingua inglese dei film studies, dopo che il regista aveva svolto un ruolo fondamentale per l’espansione dei film studies stessi, specialmente nei dipartimenti di inglese, in riferimento alla crescita dell’autorialità e la valorizzazione degli art movie (film d’arte) internazionali.”
Frank Burke avverte pertanto il bisogno di porsi come tramite e ‘ponte’ su questa faglia, nel frattempo in gran parte ricomposta proprio grazie a lui. Al tempo della prima edizione (1996) non aveva infatti potuto occuparsi degli ancora inesistenti film pubblicitari, e soprattutto del Libro dei Sogni, dato alle stampe soltanto nel 2007 (in Italia da Rizzoli, in Francia da Flammarion), e imprescindibile per inoltrarsi nella poetica di Fellini. E ora ci confida senza esitazioni: “Se dovessi tornare a ognuno dei lavori affrontati in questo volume, dovrei ammettere con me stesso: oh, ma potrei anche dire…”
Aggiungerei che è esattamente ciò che avviene in questo libro, un’attualizzazione non soltanto da un punto di vista soggettivo, ma anche a favore di una più limpida oggettiva comprensione del fenomeno Fellini nella sua globalità.
Quanto al capitolo dedicato alla pubblicità, mi soffermo soltanto su un passaggio che ci aiuta a comprendere come esistano argomenti talmente ostici alla nuova mentalità politically correct, che finiscono per costringere il nostro amico americano, individuo tutt’altro che moralista, a compiere suggestive capriole lessicali e semiologiche a proposito del meraviglioso claim della famosa pasta emiliana: “Barilla mi fa sentire sempre al dente”.
Ecco in traduzione il commento che ne segue:
“Rigatoni in Emilia Romagna si riferisce a un genere di fellatio che coinvolge i denti (da cui la polivalenza della sottolineatura al dente) utilizzato per assimilare il pene a un rigatone scanalato. (Ciò che segue è una accurata lettura eterosessuale di un’azione non necessariamente intesa in questo modo, sebbene in tale contesto tale lettura sia richiesta).”
Lascio l’approfondimento al diletto del lettore spiritoso, e rinvio l’appuntamento sui libri alla prossima puntata.