Dopo la mareggiata del Centenario Felliniano si continuano a raccogliere preziosi reperti sulla spiaggia e, qualche volta, anche autentiche perle. L’ultima, inattesa e sorprendente, è di qualche giorno fa, una pubblicazione quasi fatta in casa ad Adria, ma con che classe!, da Silvia Nonnato, una studiosa locale che dopo decenni è riuscita nell’impresa di riunire in un volume le memorie sparse, e per la maggior parte inedite, dell’archivio Catozzo, il montatore principe di Fellini.
Leo Catozzo, chiamato dal regista Leuccio e Leuccino secondo l’umore e il grado di tenerezza, era legato all’artista riminese da irriducibile affetto ed epocali avventure creative durate l’arco di dieci anni e di cinque film di cui tre Premi Oscar. La dovizia dei materiali, ora finalmente consultabili liberamente, è piuttosto eccitante: lettere, fotografie, oggetti, disegni, locandine, goliardate, rivelazioni, contratti, copioni. Per non parlare di ameni reperti, come quella tavola disegnata da Federico per il suo prezioso collaboratore, in cui figurano otto tipologie di culi femminili con definizione autenticata: a mandolino, pescotta, atomico, felliniano (sì c’è anche quello), accompagnati da un adeguato biglietto di cortesia:
«Egregio dottor Cattozzo, con la presenta la informiamo dell’arrivo di una nuova partita di culi. Le sottoponiamo il campionario dei vari tipi perché Ella possa scegliere quello che più si addice alla sua personalità. In attesa di un riscontro la salutiamo e le porgiamo i sensi della nostra stima vivissima».
Mi è stato chiesto di scrivere una postfazione al libro, avrei mai potuto declinare? Ho subito accettato, anche perché quel volume, lo confesso, molti anni fa avrei voluto realizzarlo io. Ecco dunque un estratto che aiuta a inoltrarsi in una delle tante caverne in Ali Baba in cui sono seppelliti i segreti di una stagione irripetibile del nostro cinema..
Quando si parla di Leo Catozzo la memoria corre a Le notti di Cabiria e alla sequenza dell’Uomo del Sacco, attorno alla quale si scatenò al tempo un clamoroso episodio di censura amministrativa. L’episodio era ispirato a un tale Mario Tirabassi che nottetempo girava con la sua FIAT Giardinetta nei quartieri più periferici e dimenticati della Città Eterna per recar soccorso ai diseredati: un po’ di cibo, un indumento, una maglia di lana, una medicina, una parola di conforto. L’anonimo benefattore rappresentava una manna per quelle povere creature dimenticate da Dio e dagli uomini: barboni, alcolizzati, vecchie prostitute, che brulicavano in una impressionante corte dei miracoli tra le voragini e le grotte di tufo dell’Appia Antica, dell’Ardeatino, di Torpignattara, dell’Infernetto.
La vicenda era stata narrata persino sul Reader’s Digest e Fellini se ne era appassionato, anzi aveva voluto conoscere di persona il protagonista, un personaggio un po’ fiabesco, come lui me lo aveva in seguito descritto, che abitava nell’ammezzato di Palazzo Wedekind a Piazza Colonna, storica sede del quotidiano Il Tempo. Il personaggio lo colpì al punto da trasfigurarlo in una sequenza che poi girò ai Cessati Spiriti sull’Appia Nuova, chiamando a interpretarla il suo montatore Leo Catozzo, alto e asciutto, dall’aspetto adeguatamente ascetico.
Come è noto il film non passò il visto di censura e fu salvato in extremis da una mezza parola sussurrata dal cardinale Giuseppe Siri, al tempo potentissimo Principe della Chiesa. Tuttavia il film, pur salvato dal rogo, non ne uscì del tutto indenne. La commissione di censura per concedere alla pellicola il nullaosta di circolazione nelle sale, pretese il sacrificio dell’uomo del sacco, un esempio di ‘carità laica’ che recava discredito all’immagine di Roma: non faceva onore a Santa Madre Chiesa, patrona della Città Eterna e appena incensata dall’Anno Santo, né ancor meno al regime scudocrociato democristiano, impegnato nella ricostruzione in atto, il boom economico alle porte, e in procinto di celebrare con le imminenti Olimpiadi la riscossa economica e civile del Paese.
Molti anni dopo, all’epoca in cui giravo Fellini nel Cestino (1984), ritrovammo per vie rocambolesche – e non è elegante riferire con quali espedienti – presso il vecchio stabilimento della Staco Film, i 210 metri di pellicola ghigliottinata. Ma soltanto la copia positiva, da cui ci affrettammo a stampare un controtipo; del negativo nessuna traccia. Irreperibile.
Lo spezzone di 6’,76” riemerse finalmente alla luce, e bisogna aggiungere che oggi è impossibile pensare a Le notti di Cabiria, vincitrice di un Premio Oscar, mutilata della coraggiosa e lirica sequenza.
Va anche riconosciuto che l’intuizione di Federico di utilizzare Leo Catozzo come interprete del personaggio, fu un vero colpo d’ala. Il montatore trasformato in attore, ora lo sappiamo con ricchezza di informazioni grazie all’accurata pubblicazione di Silvia Nonnato, non era soltanto un tecnico della moviola, bensì un uomo di rara sensibilità, figlio d’arte soprattutto da parte del padre Nino, valente compositore e sovrintendente di teatro d’opera. Appartenendo a una famiglia benestante aveva avuto una formazione scolastica tradizionale, tra liceo classico e laurea in giurisprudenza, oltre al diploma di violoncello conseguito presso il Conservatorio di Verona. Si era accostato al cinema e al montaggio per pura vocazione, diplomandosi in ‘scenografia’ al Centro Sperimentale di Cinematografia; immediatamente ingaggiato come aiuto regista, e anche sceneggiatore, da famosi registi dell’epoca, a iniziare da Mario Mattoli.
Era un genio multiforme, Leo Catozzo, un creativo a tuttotondo. Classe 1912, dunque di otto anni maggiore di Fellini, divenne il suo montatore stabile in occasione del film La Strada (1954), quando aveva 42 anni, e il regista 34. Quei dieci anni di esperienza in più, come anche nel caso di Nino Rota, Tullio Pinelli, Ennio Flaiano, assicuravano al giovane impaziente la tutela necessaria per spingersi senza rischi verso le soluzioni estrose e meno ortodosse del suo intuito artistico.
Fino a tutti gli anni Quaranta del secolo scorso, la pellicola era tagliata con le forbici e per congiungere i due spezzoni si usava l’acetone. Il solvente rendeva i lembi di celluloide (triacetato di cellulosa) morbido come gelatina, e sovrapponendo l’ultimo fotogramma di una scena al primo della scena successiva, si otteneva una incollatura sufficientemente resistente e la giuntura risultava invisibile in proiezione. Ma l’operazione era laboriosa e spesso imprecisa (c’era pur sempre la perdita almeno di due fotogrammi), cosicché i registi tendevano a girare sequenze il più possibile continue in modo da ridurre al minimo il numero delle giunture.
All’inizio degli anni Cinquanta, a sorpresa, fu proprio il montatore di Fellini Leo Catozzo a rivoluzionare la tecnica di montaggio inventando e brevettando la giuntatrice a nastro adesivo, che prese inizialmente il nome di Pressa Cabiria e poi, in tutto il mondo, di Pressa Catozzo.
Il nuovo montaggio cambiò radicalmente il linguaggio cinematografico, dal momento che il regista poteva ormai contare su un numero quasi illimitato di giunture a beneficio di un ritmo molto più spedito, agile, concitato e creativo.
Non so a voi, ma a me sembra una coincidenza a dir poco singolare che l’inventore della pressa sia stato, guarda caso, un collaboratore di Fellini. E che la magica giuntatrice sia stata realizzata e sperimentata proprio con Le Notti di Cabiria, alla soglia dunque di quei due capolavori del regista, La Dolce vita e 8 ½ che hanno sovvertito in maniera irreversibile il linguaggio cinematografico.
Verrebbe da supporre, conoscendo un po’ Federico, e senza nulla togliere al genio di Catozzo, che quella ‘macchinetta’ sia stata materializzata quasi da un incontro mentale, da una fecondazione reciproca.
Fellini mi ha sempre parlato di Catozzo con accenti di amicizia e di ammirazione, che trovano ora conferma nelle sue lettere e biglietti personali riemersi dall’archivio che Alberto Catozzo, figlio di Leo, ha preservato per decenni, con devozione di erede ma anche di accorto collezionista. Insieme a ogni tipo di reperto, Alberto ha salvato persino il feticcio più ambito, la moviola utilizzata da Leo, sulla quale sono stati costruiti scena per scena i capolavori di Fellini, da La Strada a 8 ½
Durante l’edizione di Le notti di Cabiria, in una lettera al montatore il regista confessa di non ricordare in ogni dettaglio tutto il materiale girato e quindi si affida a lui per gli ultimi attacchi. Fellini! Che in moviola non ammetteva quasi neppure Giulietta, a tal punto era geloso delle alchimie dei suoi alambicchi. Apprendiamo d’altro canto che il regista aveva girato più di 56.000 mt di pellicola; segno inequivocabile di una esuberante immaginazione, ma forse anche di una ragguardevole ripetizione di ciak, e pertanto di un clima non esattamente disteso sul set.
Il film finito dura 112’, poco meno di due ore, per un totale di 3,064, 32 mt. Dunque più di 50.000 metri di pellicola sono finiti nel cestone degli scarti. È lecito supporre che il materiale era stato girato con tanta dovizia pensando già a una scioltezza di attacchi che con la vecchia tecnica non sarebbero stati possibili? Posso immaginare che Federico e Leuccio già procedevano spalla a spalla nella costruzione del film, consultandosi anche riguardo alle riprese.
Per Federico la concezione stessa del racconto cinematografico era cambiata, e ne abbiamo la riprova nel film successivo, La dolce vita, un vero e proprio kolossal in cui il ritmo convulso, incalzante, è presente non solo fin dal primo concepimento, ma già nelle prime inquadrature. Siamo di fronte a un montaggio spumeggiante, dai toni e dai ritmi che si rincorrono in un’onda gioiosa come accade nei movimenti di un concerto. Compositore e arrangiatore viaggiano sulla medesima sintonia. Una controprova? La più clamorosa che si potrebbe immaginare.
Per il film successivo 8 ½ veniamo ad apprendere dalla ricerca di Silvia Nonnato una notizia assolutamente clamorosa, e cioè che fu Catozzo a suggerire a Federico, all’ultimo momento, di sostituire il finale già montato nella copia campione, con il celebre carosello di tutti gli attori in parata. Una rivelazione che apre uno scenario ben diverso: la versione generalmente più accreditata è che fosse stato Ernst Bernhard, lo psicanalista di Fellini, a suggerire quella provvidenziale variazione.
8 ½ è l’ultimo film in cui regista e montatore lavorano insieme. Catozzo deciderà infatti di ritirarsi dal montaggio per dedicarsi a tempo pieno alla produzione industriale della pressa che lo sta lanciando nel mondo imprenditoriale con agganci promettenti negli Stati Uniti.
A una lettura non soltanto cronachistica degli eventi, mi pare che la collaborazione artistica tra Fellini e Catozzo contenga affascinanti venature fiabesche. Quantomeno non facili da riscontrare nella ordinaria letteratura cinematografica.
Siamo giunti così alla conclusione di questa rapida ricognizione. Ma resta in piedi ancora una bruciante curiosità, un quesito che non riesco a togliermi dalla testa: chi tagliò materialmente, nottetempo, di nascosto, la sequenza dell’Uomo del sacco? Catozzo stesso, oppure un altro montatore fidato di Dino De Laurentiis?
A voi sembra verosimile che Leo Catozzo, Leuccio, o Leuccino, come lo chiamava Federico, si sia prestato a mutilare l’Uomo del sacco, cioè sé stesso, all’insaputa di Fellini e in combutta con il tycoon napoletano?
E se non lui, allora chi procedette a quella frettolosa amputazione? Forse Mario Serandrei che lavorava alla Lux ed era passato stabilmente a libro paga di Ponti e De Laurentiis? Infine: perché sono spariti e dove sono finiti i negativi originali sia della sequenza de Le notti di Cabiria, sia del primo finale, già montato, di 8 ½ , conosciuto in sceneggiatura con il nome di “La carrozza ristorante”?
Forse non arriveremo mai a saperlo, ma la sfida è lanciata: chi sa, parli!