Sono indignato e amareggiato, nello stesso tempo. E penso che si dovrebbe aprire un dibattito sulla nostra professione e in particolare sulla mia, quella di giornalista del servizio pubblico. Si sta discutendo della nostra presenza sui social, su quello che un giornalista della Rai servizio pubblico può o non può dire. Ci si chiede di tenere un atteggiamento equilibrato, di non lasciarci sfuggire commenti di parte, ci si chiede di utilizzare toni pacati, di equidistanza. Specie nei confronti della politica, perché noi dovremmo essere i giornalisti più equilibrati fra i giornalisti, proprio per il nostro ruolo.
Io faccio il cronista parlamentare, ma sono un frequentatore – per professione – dei palazzi della politica da molto tempo prima di quando ho cominciato a seguirla per la Rai. Mi ricordo che la prima volta che entrai in quei palazzi ero un “ignorante” che entrava in un tempio della democrazia, nei luoghi sacri della democrazia. Di fronte avevo “eletti dal popolo” che rappresentavano l’elite della nostra cultura, della politica, insomma, della nostra società. Ero rispettoso di un mondo che svolgeva le proprie liturgie nel pieno rispetto dei ruoli ricoperti. Dentro quei palazzi c’era una grande cultura politica. C’erano rappresentanti di quei partiti politici che avevano affrontato la resistenza, avevano contribuito alla scrittura della nostra Carta Costituzionale. C’erano dibattiti durissimi, con parole dure ma ordinate e rispettose dei ruoli di maggioranza e opposizione. C’erano dibattiti “alti” sul futuro del Paese. C’era la strategia politica, la volontà di usare la politica per quello che è: arte della mediazione. Anche allora, immagino, ai giornalisti della Rai si chiedeva equilibrio, anche se poi, ora come allora, la politica in assenza di una governance che liberasse metaforicamente il cavallo di Viale Mazzini, la occupava come se fosse uno dei ministeri. Tanto ai partiti di maggioranza, tanto a quelli di opposizione.
Da quando, nel pieno di tangentopoli, cominciarono ad entrare i cappi nell’aula di Montecitorio, la politica ha cominciato a svilirsi. In quell’aula si sono viste offese, mortadelle, cappi, spintoni, ombrellate, calci negli stinchi, feriti e le parole hanno perso quel meccanismo di “correttezza” che si era sempre osservato. Oggi abbiamo politici come Sgarbi che ha definito Conte il prodotto di un parto anale congiunto di Salvini e Di Maio.
Abbiamo avuto chi voleva bombardare i barconi che approdavano sulle nostre coste. Ieri Borghi (testuale) ha affermato che questo governo lascerà la stanza dopo averci defecato. In linea teorica noi giornalisti del servizio pubblico dovremmo essere equilibrati nel momento in cui chi rappresenta gli elettori utilizza un linguaggio che nulla ha a che vedere con quanto si richiede ad un rappresentante massimo della democrazia. Ed allora io mi chiedo: come è possibile che i giornalisti del servizio pubblico non possano esprimersi, non dico nei propri pezzi (in cui fortunatamente si evita di riportare beceri linguaggi) ma da liberi cittadini su luoghi di confronto pubblico come i social stigmatizzando tale uso della parola da parte di chi ci rappresenta. Possiamo leggere questa eventuale presa di posizione come mancanza di equilibrio nei confronti delle parti politiche e quindi come violazione della nostra terzietà professionale o, come penso, dovremmo definirla invece come grande equilibrio nei confronti del rispetto verso la storia della democrazia del nostro Paese?
Perché io non posso dire quel che penso, senza infingimenti, di fronte a queste esternazioni col rischio di essere oggetto di richiamo da parte della mia azienda, mentre un Onorevole Deputato o Senatore della Repubblica può utilizzare linguaggio d’odio nei confronti degli avversari politici? Significherebbe che i miei diritti di cittadino/elettore vengono diminuiti perché devo osservare un eccessivo rispetto per la “democrazia”? Significherebbe che io ho meno diritti di altri nel difendere quello che dovrebbe essere un comportamento corretto di chi è eletto anche a mio nome? Se io penso che quel linguaggio ha molte similitudini con quello dei fascisti del ventennio, perché non posso dirlo? Se noto da parte di qualche politico affermazioni razziste, perché non posso tacciarlo di razzismo.
Ecco, anche alla luce di un dibattito sempre più necessario sull’uso dei social, su quello del linguaggio d’odio che, come abbiamo visto negli Stati Uniti, può provocare ferite alla democrazia, vorrei che si aprisse un dibattito. Quale è il confine tra l’equilibrio necessario che la professione richiede e il rispetto dei miei diritti civili, politici e di opinione? E qual è il modo per vietare ad un parlamentare che esprime le proprie opinioni nei modi che qui ho riportato se poi, di fronte ad una querela, ha la possibilità di nascondersi dietro l’immunità utilizzata in modo diametralmente opposto da come l’istituto era stato pensato dai Costituenti?
L’istituto era stato immaginato per difendere il diritto di opinione, non come arma per poter dire tutto ciò che si vuole. Con la politica che racconto, vorrei “giocare” ad armi pari. Continuo ad essere equilibrato, ma voglio anche sapere come io stesso possa difendermi come cittadino da atteggiamenti di politici che utilizzano un linguaggio che mi ricorda troppo quello fascista. Siamo o non siamo i cani da guardia della democrazia? E allora, quando vediamo qualcosa che non va, penso che abbiamo il diritto di lasciare la nostra terzietà per dire quello che pensiamo apertamente. Senza che nessuno ci accusi di essere di parte.