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Primarie su SKY. Dalla crisi dei talk show agli scontri all’americana?

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Cinque personaggi in cerca d’autore. Così sono apparsi con le loro “posture” innaturali i 5 esponenti del centrosinistra, tutti in piedi davanti ai leggii, immersi in un rosso sovresposto, isolati dal resto del pubblico in un megastudio, quello di X-Factor, che ha reso in qualche modo  “spettacolare” il confronto politico, senza più i soliti urli, battibecchi e sopraffazioni. Ma ha anche decretato due sentenze per il mondo dei media: la fine dei Talk Show politici e la banalizzazione del messaggio politico.
A suo agio, senz’altro il candidato più giovane e “telegenico”, il sindaco di Firenze Renzi, abituato all’uso degli slogan e a reiterare i suoi messaggi semplificativi, ma con l’esperienza pregressa di chi ha calcato già il palcoscenico negli studi TV ai tempi de “La Ruota della fortuna”. Meno calati nel nuovo format all’americana (ma in realtà negli USA i tempi di risposta sono più lunghi e le domande molto più incalzanti) i due esperti, Bersani e Vendola, abituati ai talk show e alla spiegazione “piana” dei loro contenuti.

E poi le due “scoperte”, in qualche modo positive: il sempreverde Tabacci, abituato ai tempi televisivi e soprattutto mai banale; la “new entry” Puppato, certo meno avvezza ai palcoscenici, ma anche più “ruspante”, più “una di noi”.
La crisi dei Talk Show è un fatto costante che deriva in parte dalla fine dell’egemonia mediatica di Berlusconi e del berlusconismo di destra e di sinistra; in parte, dalla degenerazione della formula, sempre più imperniata sull’abilità del conduttore e sulla “spettacolarità” degli ospiti. Si tratta di un’implosione inaspettata e deflagrante, così come inaspettata e deflagrante è stata l’uscita di scena dal governo del Mago di Arcore.

E’ terminata anche la stagione delle inchieste di approfondimento che cercavano con approssimazione e banalizzazione di analizzare il “lato oscuro” del pianeta sociale Italia. Sempre più i servizi filmati sono girati e montati ad uso e consumo dello studio, dove si aggirano esperti o pseudo tali, sondaggisti amici, pubblico tifoso e plaudente.
Mentre il paese sprofonda in una crisi talmente nera e variegata, che solo qualche inchiesta sulla carta stampata o alcuni reportage presentati su Raitre dalla meritoria trasmissione Report riescono a documentare. Il resto del paese, quello vero, quello che soffre, contesta, mugugna, si astiene dal voto, emigra all’estero, la maggioranza degli italiani, insomma, è come se fosse un’entità evanescente, impalpabile.

Eppure è presente sulla Rete, sui Social Network, “posta” i filmati di “contro-informazione” su YouTube. Si creano movimenti in tutti settori produttivi e nelle realtà più piccole, mentre la società civile sempre più si allontana dai tradizionali luoghi della politica. La TV, pubblica e privata, non riesce, anzi non intende, intercettare questo mondo. E’ ancora troppo legata ai diktat dei partiti, immersa nei conflitti di interesse, restia a fare il salto di maturità editoriale, ispirandosi ai modelli nord europei.

Cala la platea dei Telegiornali, si affievoliscono anche gli ascolti globali dei giornali radio, diminuiscono tragicamente le vendite delle copie dei maggiori quotidiani. La massa sembra allontanarsi dai media. E’ la fine, dunque, dei “Mass-Media” nati nel Novecento?
Piuttosto è la fine dei media tradizionali, che tanto hanno arricchito chi li produceva e quelli che ci partecipavano come “attori” nei ruoli di comprimari e comparse, conduttori, opinionisti, ospiti fissi “un tanto a cachet”. Se è vero che la svolta per il rilancio dei Network generalisti, digitali, terrestri e satellitari, è la loro trasformazione in “Network cross mediali”, è anche vero che vanno cambiati i linguaggi della comunicazione, vanno ripensati i programmi informativi perché siano realmente “aperti”, “duali”, “biunivoci” ed obiettivi nel documentare la realtà e veloci nel trasferirla sulle diverse piattaforme, fuori dai “Patronaggi politici”, dalle schiavitù dei Format e dalla logica del massimo profitto speculativo.

Ecco allora che le nuove formule “all’americana” come il “Debate”, proposto da SKY Italia e già assurto a nuovo Format sostitutivo dei talk show,  può smuovere l’attenzione, ma non modificare gli eventi. Può stimolare l’interesse momentaneo, ma poi si riduce ad una ennesima versione del Format “America’s Got Talent”, alla ricerca del “prodotto politico” più digeribile alla massa degli “analfabeti di ritorno”, come sono ritenuti i “consumer” di Tv dagli inserzionisti pubblicitari e dagli istituti di sondaggi.

Slogan accattivanti, risposte rapide più o meno impacciate nel breve volgere di 1 minuto e mezzo non contempleranno mai la complessità di una società, specie se questa vive una crisi drammatica da oltre 4 anni. Questo nuovo format forse imporrà sul mercato mediatico e politico nuovi “prodotti pubblici”, che andranno in parte a colmare quel vuoto ideale e progettuale che tutti i partiti, ormai “berlusconizzati” in oltre 20 anni di regime, hanno fatto crescere tra i loro apparati e le variegate sfaccettature della società.

Certo, dall’altra parte resistono ancora i tanti talk show (da Ballarò a Servizio pubblico, da Porta a porta alla Piazza pulita, a l’Infedele), chi più chi meno sintonizzati su un’epoca storica tramontata. Meglio di niente! Ma programmi logori e non all’altezza dei cambiamenti epocali (solo Lerner riesce con il suo stile a dare un’impronta moderna).
Sarebbe quindi compito di un Servizio pubblico autonomo, indipendente, veramente pluralista e interessato alla qualità dell’informazione quello di sperimentare nuove formule, nuovi linguaggi. Saprà la RAI di Tarantola e Gubitosi aprire i cancelli di Saxa Rubra a nuove energie (non necessariamente “giovaniliste”), a rimettere in produzione gli “emarginati”, le forze intellettuali che hanno mantenuto “la schiena dritta”, a rielaborare l’eredità culturale e professionale di programmi di approfondimento consegnatici dalla storia del Servizio pubblico e che risalgono addirittura agli anni Settanta e Ottanta?

Oltre alla digitalizzazione del sistema informativo, su cui puntano i nuovi vertici di viale Mazzini, va dato libero spazio alla creatività, alle tante professionalità esistenti nella RAI e alla “digitalizzazione culturale e mentale” del Servizio pubblico stesso. Pena il decadimento della RAI e la sua marginalizzazione.


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