Nel 2016 ‘Certain Women’ è stato presentato al Sundance Festival e ha vinto il London Film Festival. Le tre microstorie che lo compongono sono collocate in altrettanti episodi distinti, con incroci di trama ridotti al minimo. Lo sguardo distante della regista e la sceneggiatura didascalica rendono purtroppo i primi due episodi faticosi e in definitiva banali; più che altro rappresentano un’introduzione sociale, topografica e climatica al terzo, l’unico in cui l’intreccio riesce ad assumere una forma plausibile e interessante, anche per merito delle due protagoniste.
A nord del Parco di Yellowstone, nello Stato del Montana, troviamo Livingston, dove le strade, di sera, sono illuminate dalle insegne al neon dei negozi bassi e allineati. D’inverno, arrivando in treno, si scorgono sottili pali neri infitti nella neve ghiacciata, lungo i binari e, a poco a poco, la luce bianca e azzurra – di neve e di cielo – riempie gli occhi. Anche quelli di Jamie, allevatrice di cavalli in un piccolo ranch fra le montagne. Lavora dentro il tempo rituale del lavoro, una vita scandita dai gesti che si ripetono ogni giorno: far passeggiare i cavalli, spazzolarli, prendere le balle di fieno dai silos, sempre in silenzio, con l’unica compagnia di un cane dalle zampe corte.
La sera Jamie prende la macchina e va in giro senza una meta precisa, fra i rari parallelepipedi degli shopping center e dei magazzini, fino al giorno in cui scorge delle persone entrare in un edificio e le segue alla ricerca di qualcosa di indefinito – il calore di una stanza, voci umane, volti da osservare. Si tratta di un corso di aggiornamento sulle leggi scolastiche riservato agli insegnanti. La docente è Beth, e il suo ingresso nell’aula spoglia rappresenta per Jamie un istante epifanico. Il suo cuore si arresta in una percezione duratura, libero dalla distruzione, al centro del Tempo. Se ne può addirittura avvertire l’accelerazione stupita e appena dolorosa, osservando la concentrazione dello sguardo, la combustione liquida – involontaria quanto incontrollabile – che esprime.
Le due ragazze finiranno per cenare insieme in una tavola calda. Beth, visibilmente stanca e piena di timori e recriminazioni, mangia piccole porzioni dei panini flaccidi affogati nelle salse e incorniciati da patate fritte. La laurea in legge e il lavoro come avvocato in uno studio di Livingston non la mettono al riparo dai debiti e dal rischio di finire a vendere scarpe – destino in ogni caso migliore di quello della madre e della sorella. Accetta quindi ogni lavoro extra, anche insegnare in un posto sperduto a quattro ore di macchina dalla città, affrontando due volte la settimana un viaggio di ritorno su strade ricoperte di ghiaccio o addirittura interrotte per la neve.
Jamie la ascolta, ma soprattutto evita di mangiare per non perdere nemmeno il più minuto frammento dei suoi gesti, delle mani che afferrano il tovagliolo di carta, ancora chiuso intorno alle posate, per asciugarsi le labbra, di qualunque espressione fisica capace di identificare un carattere e una vita intera. Così, l’esistenza trascorsa appare a Jamie nella sua desolata insufficienza; la fattoria, il filo della lampadina fissato al soffitto con del nastro isolante, il silenzio perenne le fanno desiderare ogni giorno di più il momento fatidico delle lezioni serali e delle soste nel diner dalle vetrate spalancate sulla notte. Si fa strada la speranza che il miracolo possa compiersi.
Prende un’iniziativa coraggiosa per coinvolgere Beth nel suo mondo di stalle e vapori di neve, arrivando al corso a cavallo e dandole un passaggio fino alla tavola calda. Vince la titubanza di Beth, e riesce persino a strapparle un sorriso di spensieratezza, ma è un incanto illusorio e brevissimo, durante il quale il fine ricamo di sfumature emotive contrapposte elaborato da Lily Gladstone (Jamie) e Kristen Stewart (Beth) raggiunge l’acme del virtuosismo, anche nel momento successivo, quando il rapido movimento di ripulsa di Beth trasforma in cenere inerte le speranze di Jamie.
Basta un lembo di sciarpa tolto dalle mani con una ruvidezza inequivocabile per restituire la scena alle differenze – culturali, economiche, in sintesi di classe – che, come avviene nella seconda parte de La vie d’Adèle, rendono impraticabile una storia d’amore.
Sulla soglia della possibilità rimangono solo macchie di neve marcita.