“B” come bugie. E come Bolzano. Un triste binomio nella vicenda di Emanuela Orlandi. Perché dalle Dolomiti sorse una delle maggiori illusioni sulla sua scomparsa, rialimentata sui social network e su qualche testata telematica al crepuscolo del 2020 col pretesto del decesso della sua protagonista principale: Josephine Hofer Spitaler.
Residente a Terlano, paesino in provincia di Bolzano, era poco più che cinquantenne quando nel febbraio 1985 riferì ai Carabinieri della zona un episodio che sarebbe avvenuto nel Ferragosto 1983. Presso il maso della famiglia di Teuffenbach, dove viveva e lavorava insieme al marito, sarebbe giunta una A112 targata Roma con a bordo un uomo e una ragazza tra i 14 e i 16 anni, che fu condotta nel piano dell’abitazione sottostante al suo e abitato dai coniugi Springorum. Tre giorni dopo la visita di un militare dalla parlata tedesca avrebbe preannunciato che l’indomani una persona dalla Germania sarebbe passato a prendere la giovane. E questo sarebbe avvenuto il 19 agosto, alle 13:15, per mano di Rudolf di Teuffenbach (ufficiale del SISMI presso la sede di Monaco di Baviera e cognato dello Springorum), di sua moglie e di un’imprecisata trentacinquenne tedesca dal capello biondo. Dopodiché nel settembre 1983 dalla tv la Hofer avrebbe appreso per la prima volta della vicenda Orlandi, riconoscendo nel volto di Emanuela quello dell’adolescente del suo racconto.
Trasmessa subito a Roma, la segnalazione spinse gli inquirenti alle pendici del Sassolungo per cercare gli eventuali riscontri che avrebbero impresso una svolta a un’indagine fino a quel momento stagnante nell’inconcludenza. Tanto che alla fine del gennaio 1985 l’avvocato Egidio, legale degli Orlandi, in diretta tv aveva promesso dai 50 ai 250 milioni di lire per chiunque avesse fornito, entro il 28 febbraio dello stesso anno, informazioni utili al ritrovamento di Emanuela. E sul fronte giudiziario il 27 marzo la Procura Generale, dopo averla avocata alla Procura della Repubblica, avrebbe assegnato l’inchiesta al giudice istruttore Ilario Martella, fresco reduce dall’istruttoria sull’attentato al Papa. Proprio la capillarità del suo lavoro accertò il bluff della “pista di Terlano”.
Innanzitutto per le molteplici contraddizioni della Hofer. Fin dall’inizio. Alle perplessità degli inquirenti sulla tardività della segnalazione rispose che, pur avendone parlato in famiglia, aveva seguito i consigli del marito: non interessarsi alle vicende degli Springorum. Sennonché fu smentita dal figlio, Norbert Spitaler, che il 6 marzo 1985 dichiarò: “Non ricordo che mia madre mi abbia mai parlato di una ragazzina somigliante a Emanuela Orlandi ospitata dagli Springorum. Non sono mai venuto a conoscenza che una ragazza assomigliante a Emanuela Orlandi […] sia stata condotta dagli Springorum […] e in seguito, dopo qualche giorno, portata altrove da Rudolf di Teuffenbach”. La signora precisò poi che quella ragazza indossava un girocollo non metallico “verde e grigio”. Era invece giallorosso quello della giovane cittadina vaticana, tifosa romanista.
Emersero poi altri elementi d’inattendibilità. L’assenza di riferimenti a Emanuela Orlandi nelle telefonate degli Springorum e dei di Teuffenbach, intercettate per tre mesi in un’epoca senza cellulari e che, complice la poca conoscenza di questa pratica investigativa, induceva a parlare senza troppi freni alla cornetta. Nessuna minaccia o pressione degli indagati nei confronti della Hofer, come tra l’altro da lei confermato al giudice Martella (7 maggio 1985), perché ritrattasse le accuse o addirittura non raccontasse a nessuno quanto visto, come invece avviene quando l’autore di una malefatta è al corrente di testimoni che potrebbero inguaiarlo. Infine, l’esito negativo delle perquisizioni nella casa degli Springorum per individuare eventuali tracce riconducibili a Emanuela Orlandi.
Ma la prova regina che smontò quel castello di fantasie, è la certezza che il 19 agosto 1983 Rudolf di Teuffenbach non era a Terlano bensì a Monaco di Baviera. Lo si apprende dalla documentazione ufficiale agli atti dell’inchiesta Orlandi. Dove c’è copia dei telex che spedì quel giorno dal suo ufficio e dei servizi che effettuò presso la sua banca, per i quali mai avrebbe potuto trovarsi per le 13:15 a Terlano, oltretutto distante trecento chilometri e almeno tre ore e mezzo di viaggio. Anche perché avrebbe necessitato di un’autorizzazione per assentarsi dall’ufficio, che per regolamento non poteva rimanere scoperto e che divideva col collega Antonio Trono, dal 25 luglio al 19 agosto 1983 in ferie nel Salento come risulta dalla nota trasmessa al giudice Martella, il 16 maggio 1985, dal direttore del SISMI, l’ammiraglio Fulvio Martini. E da una successiva corrispondenza fra i due arrivò la definitiva conferma della sua estraneità alla vicenda. “In riferimento alla richiesta di V.S. concernente il dipendente del Servizio sig. Rodolfo di Teuffenbach, comunico che a seguito delle indagini espletate, non è stata elevata a carico del predetto alcuna imputazione. Ciò stante, si attesta […] la inesistenza di procedimento penale a carico del sig. Rodolfo di Teuffenbach” scrisse il giudice il 7 agosto 1985 all’ammiraglio che chiedeva se il funzionario potesse essere nuovamente reimpiegato dopo essere stato posto in aspettativa all’inizio dell’indagine nei suoi confronti.
Precisato che l’“inesistenza” di un atto ricorre quando è privo degli elementi essenziali per inquadrarlo, anche questo documento è tra le carte dell’inchiesta. Assieme alla deposizione di Johanna Blum, docente di musica di Bolzano, che in concomitanza con la comparsa della Hofer si ricordò di una telefonata ricevuta in piena notte alla fine del luglio 1983. Una voce femminile le avrebbe detto di essere Emanuela Orlandi e di trovarsi prigioniera a Bolzano, ma pochi minuti dopo una voce maschile l’avrebbe invece invitata a dimenticare quanto sentito e infine sarebbe stata la polizia a chiamarla, consigliandole di non aprire a nessuno. A parte domandarsi dove usi che la polizia, in piena notte, contatti di sua iniziativa i cittadini invitandoli a chiudere la porta di casa (come se poi qualcuno andasse a dormire tenendola spalancata…), se nel frattempo non fosse deceduta, quando nel novembre 2014 salii in Alto-Adige per alcune verifiche, avrei voluto chiedere alla signora perché avesse parlato soltanto dopo l’entrata in scena della Hofer.
Quest’ultima intanto era caduta nuovamente in contraddizione. Il 6 febbraio 2012 ai Carabinieri di Bolzano, che l’avevano richiamata dopo che un abitante della zona aveva aperto un altro sentiero investigativo sul caso Orlandi rivelatosi poi un altro bluff, dichiarò che “tre giorni dopo che la ragazza era stata portata via ne aveva parlato con dei Carabinieri che le avevano portato da cucire dei pantaloni […] Dopo un paio di giorni era andato da lei il comandante della stazione dei Cc di Terlano che la portava in caserma dove vi erano altre persone in borghese che le domandavano quanto aveva visto. In tale contesto le veniva mostrata la foto di una ragazza che era stata rapita in Roma…”. Secondo questa ricostruzione la Hofer avrebbe identificato la Orlandi il 24 agosto 1983. Una data non collimante, oltre che con la segnalazione giunta a Roma (18 febbraio 1985), con le parole della sua prima deposizione (4 marzo 1985): “Sono venuta a conoscenza della vicenda Orlandi, guardando la televisione, durante il periodo settembre ‘83”.
Ma allora che cosa la spinse a quelle narrazioni infondate? Con certezza non si è mai saputo, anche perché nessuno l’ha mai approfondito, però è molto probabile che la ragione risieda nei pessimi rapporti con gli Springorum, che il 31 ottobre 1983 l’avevano licenziata a seguito di varie controversie. “Da circa un anno non ci rivolgiamo la parola” verbalizzò in merito fin da subito la donna, al corrente che il 31 marzo 1985, insieme al marito che andava in pensione, avrebbe anche dovuto lasciare il maso Teuffenbach.
I coniugi Springorum, Rudolf di Teuffenbach e la moglie rimasero formalmente iscritti nel registro degli indagati per poi essere prosciolti al termine della prima inchiesta Orlandi (19 dicembre 1997). Viene dunque da chiedersi perché, di fronte a un quadro dei fatti così nitido, alcuni operatori dell’informazione ai giorni nostri si affannino nella riesumazione di tesi ormai ridotte in polvere, generando soltanto confusione nei lettori. Da dove nascono tanta esigenza e tanta ostinazione? A un giornalista non cambia nulla se una pista sia vera o sia falsa. Perché un giornalista fa informazione, non propaganda. A meno che non nutra nostalgia per una stampa ideologica sul modello di quella che negli anni Settanta con le sue facinorosità fu responsabile anche dell’assassinio di un commissario di polizia.
Per la pista di Terlano l’augurio è che sia stato un errore in buonafede, figlio di una scarsa conoscenza della vicenda e di un modus operandi sommario e superficiale. Altrimenti sarebbe un doppio inganno: nei confronti del pubblico e della sfortunata protagonista di questo dramma, Emanuela Orlandi.