Sui principi e sulle regole fondamentali non si può fare eccezione. Neppure quando si tratta di un dichiarato golpista come Trump, eversore in diretta televisiva. Ciò che è avvenuto la serata dell’Epifania a Capitol Hill di Washington rimarrà per sempre nei libri di storia come una macchia indelebile sul e del sistema istituzionale degli Stati uniti.
Ma è ugualmente seria la scelta dei social (Facebook e Instagram, Twitter significativamente crollato del 10% in Borsa) di bannare l’uscente presidente dedito a cinguettii e post considerati contrari alle etiche delle comunità virtuali. Non può essere isolato come un caso singolo e eccezionale. In verità, in modo meno eclatante e più silenzioso, l’utilizzo a fini di manipolazione e di propagazione delle cosiddette fake è piuttosto diffuso nei variegati regimi autoritari di questa stagione.
Tuttavia, l’aver tolto la parola a Trump costituisce un possibile spartiacque nella storia dei social e del loro del potere decisionale. I vertici incontrollabili di società private senza terra né legge sono in grado di staccare la spina a chi non è ritenuto interno all’etichetta stabilita in modo altrettanto privato. Oggi Trump. Ma domani? Se gli esponenti di una lotta antifascista o antirazzista fossero espulsi dalla rete per affermazioni ritenute eccentriche?
Crea imbarazzo affermarlo ora, dopo silenzi colpevoli che hanno attraversato i numerosi anni che ci separano dalla nascita dei cosiddetti Over The Top. Quando l’incitamento alla violenza, la pratica dell’hate speech, le offese contro le donne, il dilagare del bullismo sono diventati di casa senza trovare ostacoli se non in grida o innocui regolamenti di questa o quella autorità. O quando si organizzavano iniziative intrusive sui voti popolari come è stata Cambridge Analytica.
Di fronte all’eccesso i social sono intervenuti, avvalendosi di funzioni che si sono presi con la logica dei signori feudali. Non per caso sono discesi in campo contro il ricorso a forme di censura stabilite da oligarchi proprietari il portavoce della cancelliera Merkel, il ministro francese dell’economia, Le Maire, il commissario europeo per il mercato interno Thierry Breton, i premier del Messico e dell’Australia. Si è aggiunta, infine, la ministra italiana Pisano. Nonché l’esternazione di numerosi commentatori.
Giusto, quindi: no alla censura. Però, che fare? Il fatto stesso che Zuckerberg e Dorsey dispongano rispettivamente di 2 miliardi e settecento milioni, e di 400 milioni di adepti riuscendo a smuovere opinioni di massa e a soppiantare via via nella raccolta pubblicitaria (ora si profila uno stop a quella politica) la vecchia televisione generalista non pone una enorme questione democratica? Così come il possesso predatorio di dati personali buoni per ogni saccheggio non colpisce al cuore le libertà?
Servono, insomma, atti regolatori adeguati al tempo digitale, sotto l’egida del pur pallido consesso delle Nazioni unite. Si tratta, com’è evidente, di faccende sovrannazionali, dove persino l’Europa non basta. Sono in fase ascendente le due interessanti proposte di direttive Digital Services Act e Digital Markets Act, che introducono alcuni principi.
Torniamo alle Nazioni unite, facendo – però- un passo indietro. Se non ci sono strumenti utili alla bisogna non è solo colpa del destino.
Nel 2005 si tenne a Tunisi la sessione annuale del World summit della società dell’informazione (Wsis), organismo del palazzo di vetro. Passò l’idea di costituire un apposito organismo, sempre della stessa famiglia, che si occupasse della rete, dove i cattivi muovevano ancora i primissimi passi.
L’anno successivo, sulla base di tale indirizzo, nacque ad Atene l’Internet governance forum (Igf), che avrebbe dovuto avere la missione specifica di agire nel territorio digitale. Senza rigidità burocratiche, ma con il peso di un’autorità dotata di funzioni incisive. Non andò così. Prevalse un’ipotesi minimalista, sotto l’egida della suggestione che la rete si autoregolamenta da sé.
Fu un’illusione, in un consesso che vide andare in minoranza chi sosteneva (a partire dal governo francese e con una delegazione italiana divisa) una linea di maggiore forza.
Eccoci, dunque, alle disavventure odierne. Si riavvolga il filo ateniese, allora.
Fonte: “Il Manifesto”