Nei dintorni della strada del massacro la polizia lasciava passare i giornalisti alla spicciolata. I pochi commercianti che avevano ancora la serranda alzata erano diffidenti, spaventati ed esitavano a rispondere alle domande. Dall’altra parte di boulevard Richard Lenoir, gli avventori di un bar scrollavano le spalle. Uno di loro mi parlo’ del gestore di un ristorante sushi che avrebbe visto tutto. Lo scontro a fuoco con la polizia, la bicicletta rovesciata e schiacciata dall’auto degli attentatori, il marciapiede dove il poliziotto ferito fu orrendamente giustiziato. Più vicino al luogo dell’attentato c’era un negozio di luci. All’interno un uomo basso, sulla cinquantina, inizialmente diffidente, dopo alcune esitazioni mi racconto’ ciò che aveva visto. «La macchina nera degli attentatori è passata di qui – mi disse – ho sentito esplosioni, credevo si trattasse di petardi. Ho sentito gente gridare. Poi ho riconosciuto chiaramente il rumore un’arma automatica. Mi sono nascosto subito nel retro del negozio pensando ad una rapina andata male». In poco tempo, sul luogo dell’attentato c’erano più giornalisti che abitanti del quartiere. Alcuni avevano chiuso le finestre ed abbassato nervosamente le serrande. Altri si affacciavano timidamente per poi rientrare spaventati dagli zoom e dalle telecamere piazzati come cannoni sulla strada del massacro. Vedere dei guerriglieri che sembravano usciti dall’armata del califfo Al Baghdadi sparare in pieno centro avrebbe potuto paralizzare le gambe ma anche le menti. Parigi non è la Siria, anche se forse lo è stata per alcuni minuti. Le grida inconfondibili, l’onta su Maometto lavata col sangue dei giornalisti e dei poliziotti.