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Processo Assange, una vittoria parziale e precaria

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In una Londra fredda, grigia e piovigginosa, di fronte alla Central  Criminal Court, alcune centinaia di attivisti per i diritti umani hanno esultato all’unisono, contagiando col loro entusiasmo anche i numerosi giornalisti presenti: il tribunale aveva respinto l’estradizione di Julian Assange richiesta dagli USA.
L’umore della piazza, prima del verdetto, era improntato più al timore di un signorsì del Regno Unito agli USA che al suo rifiuto quindi, quando è arrivata l’inaspettata bella notizia, le circa trecento persone cui era stato impedito l’accesso all’aula del tribunale sono esplose in manifestazioni  di gioia e di commozione al grido di “Assange è libero”.

In realtà non era esattamente così e le interviste agli avvocati della difesa, le parole di Stella Moris, avvocata a sua volta e compagna di Assange e, soprattutto, il discorso della giudice Vanessa Baraitser  che veniva conosciuto poco dopo, chiarivano che nessuna delle imputazioni per cui gli Usa vogliono l’estradizione, e il conseguente annientamento di Assange, è stata rifiutata. La giudice infatti ha respinto la richiesta solo per motivi di salute, mentre, rispetto alle accuse mosse dagli USA, le ha condivise dichiarando  che l’imputato ha travalicato la libertà di espressione e il diritto di cronaca. Inoltre, la Baraitser ha affermato di non aver dubbi circa il corretto svolgimento del processo che avrebbe dovuto subire negli USA e, quindi, rifiutava l’estradizione  solo perché le condizioni di salute mentale  dell’imputato non gli avrebbero consentito di sopportare il carcere di massima sicurezza USA in attesa del processo,  portandolo al suicidio.

Quindi, mentre tutti, compresa la scrivente, esultavamo alla bella notizia della non estradizione, e cartelli e striscioni venivano alzati, e strada e marciapiede di fronte all’entrata del tribunale raccoglievano l’eco di slogan gridati e festosi, pian piano arrivavano i dettagli e si faceva strada il vero senso della sentenza.

Intanto ci sarebbe da riflettere sul perché delle condizioni di salute psico-fisica  in cui è stato ridotto Assange in questo periodo di reclusione nel carcere di Belmarsh, detto anche la Guantanamo inglese.
In un paese che si dice democratico ci sarebbero almeno gli estremi per un’indagine sul trattamento riservato ai detenuti , se questo li riduce in condizioni simili.
Il famigerato carcere di Belmarsh si era aperto ad Assange nell’aprile del 2019, dopo che il cambio di regime in Ecuador  aveva portato alla revoca del soggiorno  protetto  nell’ ambasciata ecuadoregna, offrendolo così alla prigione inglese come chiesto dagli USA. Richiesta alla quale la Gran Bretagna ha risposto subito, servizievole e obbediente.

Ci sarebbe anche da riflettere sul trattamento ancor peggiore cui vengono sottoposti i prigionieri nelle galere di massima sicurezza USA visto che la giudice Baraitser ha mostrato di conoscerne la durezza al punto di ritenere tali condizioni favorevoli al suicidio. Puntare sulle condizioni di salute di Assange ha quindi permesso alla giudice di scavalcare la vera posta in gioco: la libertà, quella vera,  di informazione. Al tempo stesso la Baraitser ha espresso un atto d’accusa verso il carcere americano, ma prendendolo come semplice dato di fatto per giustificare la non estradizione per motivi “umanitari”.

Il margine tra diritto all’informazione vera, cioè il diritto alla verità, e la violazione di segreti di Stato è sicuramente un margine sottile, ma passare dall’uno all’altro non è questione tecnica ma questione politica. Assange è stato incriminato con 18 capi d’accusa perché ha permesso al mondo di sapere che non c’erano armi chimiche in Iraq a giustificare – ammesso che fosse giustificabile – la distruzione del Paese. Assange ha scoperto e divulgato migliaia di crimini e di segreti che gli USA celavano ai propri cittadini e al mondo. Per questo Assange va punito, perché indagare sulle malefatte del potere non si deve e non si può.
Quindi sembra lecito pensare che il punirne uno abbia l’obiettivo di educarli tutti, tutti quelli che sognano di fare giornalismo d’inchiesta al di fuori dei margini consentiti dal potere, andando oltre la verniciatura di democrazia affidata a qualche sbavatura marginale che ogni tanto ci sta bene.

Tale concetto lo ha più volte espresso il relatore speciale ONU Nils Melzer affermando che il caso Assange non riguarda tanto la sua colpevolezza, quanto la punizione per aver denunciato con fatti documentati la cattiva condotta del governo USA.
Quindi, il caso Assange è un caso politico. Ma se si accetta che il caso è politico, il trattato sui casi di estradizione ratificato nel 2007 tra UK e USA, vieterebbe l’estradizione dell’imputato. Vero è che potrebbero intervenire altre norme a consentirla  ugualmente, ma il caos crescerebbe e potrebbe avere conseguenze inaspettate. Allora si trova il compromesso: no all’estradizione per motivi di salute. Una mossa magistrale.
La non estradizione è sicuramente anche un successo, nessuno lo esclude, ma è assolutamente parziale. Intanto Assange è restato in carcere, quello dove è quasi impazzito, e domani ci sarà l’udienza chiesta dai suoi avvocati per ottenere il rilascio dietro cauzione.

Speravo che oggi fosse il giorno in cui Julian sarebbe tornato a casa“, ha detto ieri Stella Moris all’uscita dal tribunale, ed ha aggiunto che è presto per festeggiare ma che questa parziale vittoria è il primo passo per ottenere giustizia perché, ha proseguito rivolgendosi ai giornalisti e ai tanti attivisti che la circondavano, “non accetteremo mai che il giornalismo sia un crimine. La libertà di Julian è la libertà di tutti voi.” Poi ha concluso la sua dichiarazione dicendo che si appella “al presidente degli Stati Uniti affinché metta fine a questa brutta storia.” In effetti voci insistenti parlano di una possibilità di grazia che Trump, prima del faticoso e controverso passaggio di poteri a Biden, potrebbe concedere, ma senza condizioni che impedirebbero ad Assange di accettarla.

Se le guerre possono nascere dalle bugie – aveva detto Assange in un discorso pubblico a Trafalgar square nel 2011 – la verità può essere l’inizio della pace”.

Queste parole sono risuonate in questi giorni tra i suoi sostenitori e questo diritto alla verità, nel silenzio quasi totale dei governi democratici, pare sia piaciuto al presidente del Messico Andres Manuel Obrador il quale ha offerto asilo ad Assange ed ha reso pubblica la sua offerta dicendo che “questa decisione è coerente con la nostra tradizione” ha poi aggiunto che la sentenza della Corte inglese è “un trionfo della giustizia” e che “Assange è un giornalista che merita questa opportunità ” ed ha espresso il suo favore affinché “gli si conceda l’indulto”.

Ma intanto il portavoce dell’ambasciata statunitense ha fatto sapere che gli USA “sono estremamente delusi”  e faranno ricorso contro la sentenza. Il portavoce del dipartimento Giustizia USA, Marc Raimondi, nell’annunciare il ricorso e la profonda delusione, ha tuttavia espresso soddisfazione nel constatare che “ la corte inglese ha respinto le posizioni di Assange sulle motivazioni politiche e la libertà di parola”.

Il caso, insomma, non è chiuso e domani si saprà se la Corte accetta la richiesta di libertà su cauzione o se Assange dovrà restare nella “Guantanamo inglese” in attesa dell’esito dell’appello USA e dell’eventuale rinvio all’Alta Corte di Londra e alla Corte Suprema. Se il ricorso USA verrà accolto e se la libertà su cauzione respinta, la difesa di Assange ricorrerà alla Corte Europea  per i diritti umani, ma questo significherebbe che il processo ad Assange potrebbe davvero configurarsi come il processo del secolo e come lo scontro finale tra diritto a diffondere la verità e il potere che quel diritto vorrebbe conculcare.
Per ora restiamo in attesa di conoscere la decisione che domani prenderà la Corte. Sarà solo un segnale provvisorio, ma avrà il suo peso.


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