Siamo certi che a Furio Colombo, che il 1° gennaio compie novant’anni, non dispiaccia affatto essere accostato alla figura di Agitu Ideo Gudeta, la pastora e allevatrice etiope assassinata nella sua abitazione in Trentino, al termine di un anno che questa tragedia non ha fatto altro che rendere ancora più maledetto.
Furio Colombo è, difatti, un giornalista, un intellettuale e un simbolo della lotta per la dignità umana e costituzionale, protagonista della straordinaria stagione dell’America kennediana, a cominciare dalle battaglie del reverendo King contro il dramma della segregazione razziale. A tal proposito, ricordo ancora un suo meraviglioso intervento alla Camera, nell’ottobre del 2008, in cui si scagliò contro una delle peggiori leggi volute dal governo Berlusconi, versante leghista, che prevedeva il tetto del trenta per cento per quanto concerne gli alunni di origini non italiane nelle classi. Furio parlò espressamente di apartheid e citò con coraggio le battaglie del reverendo King nel Sud degli Stati Uniti, affinché la segregazione venisse sconfitta da una crescita e da un’evoluzione culturale che favorisse un cambiamento radicale in un paese tuttora in guerra con se stesso.
Furio è stato molte altre cose nella sua vita: giornalista, come detto, allievo di Adriano Olivetti, negli anni in cui la fabbrica di Ivrea era considerata la “Atene del Ventesimo secolo”, presidente della FIAT in America, direttore dell’Istituto italiano di cultura a New York ma, soprattutto, è sempre stato un custode liberale dell’articolo 21 della Costituzione, testimoniando, da direttore della rinnovata Unità che tornò in edicola dopo la prima chiusura, il proprio coraggio posto al servizio della collettività. Era il 2001, il berlusconismo era arrembante e Furio fu un esempio e un punto di riferimento per tutti coloro che non si arrendevano, che sognavano un’Italia migliore, che lottavano contro le leggi bavaglio, i provvedimenti ad personam e anche contro gli eccessivi cedimenti di un centrosinistra in profonda crisi culturale e ideologica, già allora privo di una classe dirigente all’altezza.
Furio animò i Girotondi, fu in prima linea nella battaglia contro la cacciata di Biagi, Santoro e Luttazzi dalla RAI, non lesinò alcuno sforzo nelle denunce contro il bushismo e le sue guerre disumane, subendo persino la ridicola accusa di essere “anti-americano”, e rese un giornale storicamente di partito un magnifico campo profughi per tutti coloro che volevano costruire una società diversa. Accolse ogni pensiero, difese ogni opinione, concesse il giusto spazio a un Travaglio scatenato, ne difese la libertà d’espressione anche dagli attacchi speciosi di una parte dei DS e fu costretto ad andarsene a causa di un crescente e insensato accerchiamento politico, lasciando tuttavia in eredità a Padellaro una creatura in ottimo stato. L’Unità, nel quinquennio 2001-2006, costituì infatti la migliore opposizione possibile a un governo che stava massacrando il Paese, non rinunciando per questo a pungolare un centrosinistra che, a volte, dava davvero la sconfortante impressione di essere diversamente concorde.
E poi un pensiero personale: non ero nessuno, non scrivevo neanche per Articolo 21, andavo ancora al liceo ma Furio non mi negò mai un’intervista, un colloquio, un consiglio. Quattro anni dopo, nel 2012, ebbi l’onore di andarlo a trovare di persona, alla Camera, e ricordo ancora che, rispondendo a una mia domanda, definì la fase storica che stavamo vivendo, e che purtroppo continua, un “non periodo”.
In Furio ho sempre trovato un amico, un maestro e un conforto, e mi ha sempre colpito profondamente la sua umiltà, simile, anche se diversa nelle forme, a quella di Sergio Zavoli.
Attento ai giovani, ai fermenti sociali e alle mutazioni della società e del nostro complesso panorama culturale, fu sodale di Umberto Eco dai tempi eroici del Gruppo ’63 ai giorni recenti, quando diedero vita alla Nave di Teseo per contrastare la fusione fra Mondadori e Rizzoli che, a detta di entrambi, e della bravissima Elisabetta Sgarbi, creava una concentrazione editoriale che avrebbe reso asfittico un mondo che per vivere ha, invece, un crescente bisogno di pluralismo e aria fresca.
Agitu, a modo suo, è stata una donna rivoluzionaria. Dopo essersi battuta strenuamente contro la barbarie dell’accaparramento delle terre ad opera delle multinazionali nel suo paese d’origine, aveva creato un allevamento di capre in Trentino e non si era mai arresa di fronte a nessuna violenza, a nessuna minaccia, a nessuna forma di razzismo. Per questo la notizia della sua morte ci ha lasciato senza parole, a conclusione di un anno in cui non c’è stato un solo giorno senza lacrime.
Furio e Agitu condividevano la stessa visione del mondo, pur essendo personalità con una storia, un vissuto e un’attività che non aveva alcun punto in comune, se non un concetto di base, un valore fondante del nostro vivere civile: l’idea che una comunità o cammina insieme o non è.
Piangiamo Agitu e auguriamo a Furio ogni bene: buon compleanno, buon anno e ancora tanti articoli, tante lotte, tante testimonianze e tanti altri ultimi, dimenticati, oppressi e sfruttati da prendere per mano. L’avventura continua.
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