La storia di Giovanni Lo Porto è caduta in uno dei buchi neri del nostro Paese. Sono in pochi a ricordarla, in pochi a cercare di tenerla in vita, a farne memoria.
Classe 1977, Giovanni era nato a Palermo, nel quartiere Brancaccio, in una famiglia umile e aveva studiato per lavorare nella cooperazione internazionale. Nel gennaio 2012 si trovava in Pakistan per la ong tedesca Welt Hunger Hilfe quando fu rapito insieme al collega tedesco Bernd Muehlenbeck da Al Qaida. Tre mesi dopo il sequestro Muehlenbeck fu rilasciato, mentre Giovanni restò nelle mani dei rapitori sino al gennaio 2015, quando un drone americano lo uccise al confine tra Afghanistan e Pakistan insieme ad un altro ostaggio, il cittadino americano Warren Weinstein. Della sua morte si assunse la responsabilità Obama in un videomessaggio, spiegando che accadde nell’ambito di un’operazione antiterrorismo del governo statunitense .
C’è un libro “Morte di un ragazzo italiano. In memoria di Giovanni Lo Porto” scritto da Domenico Quirico e pubblicato nel 2019 con la casa editrice Neri Pozza che cerca di restituire a Giovanni ciò che non ha mai ricevuto dal nostro Paese: “il riconoscimento che fosse stato una vittima e che gli assassini per una volta non fossero i talebani o gli alqadisti ma “i migliori alleati dell’Occidente del nostro Paese”. La scrittura di Quirico è avvolgente, il racconto duro e toccante. Lascia senza respiro e, finalmente, illumina quel buco nero dove è stata gettata la storia di Giovanni. Queste 100 pagine sono espressione anche del legame indissolubile instaurato tra Quirico e Giovanni Lo Porto, avendo vissuto la stessa tragedia del sequestro [Quirico è stato sequestrato per cinque mesi in Siria nel 2013, ndr]. Quella di Giovanni Lo Porto è una storia che, come avverte l’autore, bisogna ascoltare bene, ma non con gli occhi chiusi, come i bambini ascoltano le favole. E’ invece necessario avere gli occhi aperti, spalancati. Devi fare i conti con la frustrazione, con l’indignazione e dare il giusto nome alle vittime e ai carnefici. E’ quello che abbiamo cercato di fare con Articolo 21 intervistando Domenico Quirico.
Come nasce il suo legame con la storia di Giovanni Lo Porto?
Era il 2013, l’anno del mio sequestro, e quando sono ritornato, come fecero molti parenti di altre persone sequestrate, la madre di Giovanni Lo Porto mi contattò. Prima di allora non conoscevo Giovanni, non avevo approfondito la sua storia perché si svolgeva in un luogo del mondo che non era il mio. Mi stavo occupando all’epoca delle Rivoluzioni Arabe. Non è che potessi dirle nulla sulla storia di suo figlio, ma lei cercava attraverso la mia che, fortunatamente aveva avuto un lieto fine, un conforto per la sua, un segno che in qualche modo potesse esserci la stessa conclusione per suo figlio.
Cosa le ha raccontato?
Le ho spiegato che il tempo in un sequestro ha un senso tutto diverso, non combaciano quello delle famiglie a casa con quello dei sequestrati, né con quello dei sequestratori che proprio sul tempo giocano. Quel poco che potevo dirle ha fatto nascere un rapporto che è continuato per il lunghissimo periodo che c’è stato prima che arrivasse la notizia della morte di Giovanni. Senza darle alcuna illusione ho sempre cercato di ascoltarla, rispondere alle sue domande. Ma le dicevo anche che non conoscevo quell’area del mondo. Non appartengo infatti alla categoria di giornalisti che sanno sempre tutto. Potevo però immaginare che la trattativa fosse molto complessa perché i sequestratori erano quello che erano; che quelle sono zone fuori controllo dove è anche difficile trovare mediatori. Nel caso di Giovanni pesava anche il fatto che il nostro Paese in Pakistan avesse solo una piccola presenza militare. La mamma di Giovanni è una donna umile che si muoveva a fatica nello scenario da cui suo figlio è stato inghiottito. Non aveva punti di riferimento. Di fronte alla crescita della sua paura, io continuavo a tenere aperto il dialogo. Anche quando la Farnesina, che fino a quel momento nel rispetto dei protocolli non le aveva detto nulla, le preannunciò un possibile rientro del figlio per la fine dell’anno. Fino poi all’arrivo della terribile notizia della morte di Giovanni. E’ stata lasciata totalmente sola dal nostro Paese.
E quando nasce la necessità di scrivere un libro in memoria di Giovanni Lo Porto?
Quando ho saputo com’è finita. Questo ha generato una mia indignazione civile e umana. Non era solo una curiosità giornalistica, anche perché io scrivevo libri su altri argomenti. Io volevo restituire a Giovanni Lo Porto ciò che non aveva avuto, dal nostro Paese soprattutto: il riconoscimento che fosse stato una vittima e che gli assassini per una volta non erano i talebani o gli alqadisti ma i migliori alleati dell’Occidente del nostro Paese.
La storia di Giovanni è dall’inizio alla fine ammantata dal silenzio. Stupisce il trattamento riservato a Giovanni, soprattutto dopo la morte, dalle istituzioni. Perché secondo lei è successo?
Giovanni Lo Porto ha la colpa di non essere stato ammazzato da quelli che per “esigenze di copione” avrebbero dovuto farlo. Se fossero stati gli alquadisti sarebbe oggi annoverato tra le molti giovani vittime del terrorismo internazionale. Ma Giovanni non era per caso sulla riviera di Nizza o ad un concerto al Bataclan, lui aveva scelto di essere lì ad aiutare altri esseri umani in un luogo dove operano in concorrenza con chi usa questi stessi operatori per altri fini. Il fatto che non sia stato ucciso dai terroristi ha fatto da diminutio del suo ruolo di esempio, di eroe, di modello, di qualche cosa che bisogna ricordare e utilizzare per onorarsi, come invece molto spesso accade nelle celebrazioni che le istituzioni fanno delle vittime del terrorismo. Giovanni funzionava male in questo senso: coloro che lo avevano ucciso non erano soldati del Mali o una banda di irregolari del Tigray, ma soldati americani. L’omicidio di Giovanni Lo Porto è avvenuto con un meccanismo in cui la volontà dell’assassinio era ancora più evidente che in un raid o una sparatoria per liberare gli ostaggi, dove tragicamente una pallottola uccide chi si sarebbe dovuto liberare. Qui invece c’era l’uso del drone, uno strumento che per sua natura non distingue l’innocente dal colpevole e che deliberatamente viene usato per questa sua dimensione di incapacità. Tra le persone che tenevano in ostaggio Giovanni c’era un terrorista, un americano lui stesso, che era l’obiettivo dell’operazione americana. Ma insieme a questo terrorista c’erano anche degli innocenti, li perché vittime di un sequestro. Sulla base del principio dell’interesse maggiore che ha generato le maggiori tragedie del tempo in cui viviamo è stato deciso che fosse più importante eliminare quel colpevole che salvare le due vite innocenti. Ho studiato il diritto e ho fatto delle indagini sul caso e l’unica parola da usare è omicidio. Altrimenti sarei ipocrita. Questa è la visione di un assassinio deliberato. Ci sono vari tipi di omicidio, ma questa è l’unica parola che posso usare nel caso di Giovanni. E da un punto di vista penale e giudiziario, nel momento in cui Obama si assume la colpa della morte di questa persona e di quanto accaduto perde di senso andare a studiare la scala gerarchica coinvolta nell’operazione. E’ inifluente. La colpa è colpa. E tale resta. Allora il fatto che Giovanni Lo Porto sia stato trattato sconciamente dai responsabili di questa Repubblica discende dal fatto che il colpevole di quel delitto si chiama Barack Obama. Se il presidente fosse stato Donald Trump probabilmente questo non sarebbe accaduto.
Obama da gennaio sapeva della morte di Giovanni. Addirittura ad Aprile 2015 il premier del tempo Renzi era andato in visita negli Stati Uniti, ma solo alcuni giorni dopo il suo rientro in Italia Obama diede la notizia dell’operazione e della morte del cooperante italiano. Come mai non ci sono state delle forti reazioni a questo trattamento ricevuto dal nostro Paese dall’amministrazione americana?
A torto o a ragione, Obama resta un’icona anche adesso che non è più presidente. Io non conosco sufficientemente la politica interna americana per dare un giudizio complessivo sulla sua presidenza in tutti i suoi aspetti. Penso che dovremo aspettare almeno un decennio per farlo. Ma Obama non si tocca, è cosi anche nel mondo politico italiano, anche e soprattutto della sinistra, di alcuna parte degli intellettuali, dei facitori del pensiero collettivo. E se tu vuoi rendere omaggio al povero italiano Giovanni Lo Porto devi automaticamente dire che il suo assassino è Barack Obama. Non stiamo facendo un discorso teologico, ma di responsabilità penale, politica e di diritto internazionale collegate all’atto riconosciuto dallo stesso Obama. Ma non si può chiudere il problema di questo assassinio con un tweet che fa riferimento all’effetto secondario della guerra e dire che la colpa è dei terroristi che lo hanno sequestrato. E’ vero che i terroristi sono colpevoli del suo sequestro e sono la causa prima di questa tragedia, ma sono gli americani ad averlo ucciso. E devi chiedere conto al governo degli Stati Uniti, sul piano politico, dei rapporti internazionali tra i due Paesi. Se non lo fai si pone il problema di quale coscienza etica abbia il nostro Paese. Il Presidente della Repubblica, tra l’altro, è pure palermitano. Esattamente nato nella città di Giovanni e potrebbe ben dire il percorso straordinario compiuto da Giovanni Lo Porto per uscire dal suo quartiere e arrivare a fare il professionista dell’aiuto umanitario. Vuol dire avere un’energia interna, una capacità, una forza, una tenacia e un’intelligenza straordinarie. Che modello maggiore c’è per i giovani oggi di Giovanni Lo Porto?
Eppure la storia di Giovanni Lo Porto non la conosce nessuno.
Io me ne ero accorto quando scrivevo il libro e in tanti mi hanno chiesto chi fosse quel Giovanni di cui mi stavo occupando. Lo stesso destino del libro è stato quello di essere insabbiato e nascosto. Se ha avuto dei lettori è per una sorta di tam tam interno legato alla vita di Giovanni Lo Porto. Di questo sono orgoglioso. Ma il tutto fuori dai circuiti normali di promozione, della pubblicità. Questo libro non ha avuto nessuna recensione; è passato completamente sotto silenzio, con un meccanismo di occultamento e rifiuto di una verità particolarmente sgradevole e pericolosa da maneggiare.
Nel 2017 il Pubblico Ministero Italiano ha disposto l’archiviazione per mancata collaborazione delle istituzioni americane. Così finisce la storia giudiziaria sulla morte di Giovanni?
In punto di diritto si. Il pm ritiene di non poter arrivare a una verità nei termini sfuggenti e omissivi forniti dagli americani. Addirittura ancora non sappiamo con esatezza dove sia morto Giovanni. La storia di Regeni è molto simile a quella di Giovanni per il rapporto giudiziario con la verità. Però poi scatta una differenza: di Giulio Regeni si continua a parlare e di Giovanni no, perché i genitori di Giulio, che conservano in modo straordinario e vivo la memoria e si battono per avere verità e giustizia per loro figlio, sono persone capaci di raccontare, anche in tv, la loro storia, la loro tragedia. La mamma di Giovanni Lo Porto non è mai stata invitata a nessun talk, né durante il sequestro né una volta morto suo figlio.
Nella storia di Giulio Regeni c’è un’avvocatessa, Alessandra Ballerini, che sin dall’inizio ha assunto un ruolo centrale nella battaglia per la verità e giustizia della famiglia, nel caso di Giovanni c’è stata un’assistenza legale?
Non conosco tutto nel dettaglio e per le informazioni che ho, il mio giudizio è molto negativo sul legale che assisteva la famiglia quando i resti di Giovanni sono arrivati a Roma e poi a Palermo.
La famiglia ha almeno avuto un risarcimento dal governo americano?
Per quello che so, gli Stati Uniti hanno versato una somma ma con un dettaglio non secondario: non è stata versata nei termini di un risarcimento ma come un contributo volontario. Il risarcimento avrebbe ammesso il riconoscimento della colpa. Invece la somma è stata data per compensare il dolore.
Nel libro sono tanti i punti di contatto tra la sua vicenda personale e quella di Giovanni Lo Porto.
Il fatto che nel libro la mia vicenda si specchi in quella di Giovanni non è un accorgimento letterario e neppure una manifestazione di narcisismo è semplicemente la manifestazione dell’unico diritto che ho a parlare di Giovanni Lo Porto. Posso assumermi il diritto di scrivere un libro su di lui perché ho vissuto la sua stessa esperienza. Posso parlare di una tragedia come quella di Giovanni perché l’ho vissuta anche io, anche se per un periodo più breve. So cosa ha pensato. Posso parlare a suo nome e raccontarla. Altrimenti non avrei avuto alcun diritto di scriverla. E’ il legame indissolubile stabilito fra noi due dall’esperienza di dolore e di privazione della libertà. Questo è sufficiente per me per scrivere un libro su di lui. Non ho sfruttato la vicenda di Giovanni Lo porto per farmi pubblicità.
Nel libro si spinge ancora oltre la condivisione dell’esperienza del sequestro, scrive che pur non avendolo mai incontrato sente di essere legato da un’amicizia a Giovanni.
E’ cosi.