Gesualdo Bufalino è stato lo scrittore che ha scatenato in me una belluina passione per la lettura. Cominciai a leggere assiduamente la sua Diceria sotto il banco del Liceo Spedalieri di Catania. L’avevo scelto incuriosito dal titolo ermetico, dalla sontuosità della sua prosa della quale lo stralcio di un giornale mi aveva avvisato; perché era quasi un vecchio (così pensavo stupidamente allora); forse perché era un anonimo professore, quello che in seguito, sarei diventato anche io. Forse per tutto questo e per altre cose di cui non dico, mi sono tenuto dentro, fino alla laurea, il suo romanzo scegliendolo come argomento della tesi. Che non gli spedii mai e sulla quale gli dissi pochissimo, se si eccettua qualche confuso balbettio telefonico, qualche accenno schivo durante la pompa delle presentazioni cui credo mestamente partecipava divertito: rispettoso dell’intransigente discrezione che pareva pretendere dal mondo. Per questo non l’ho accompagnato il giorno del suo funerale. Ho lasciato l’incombenza di scortare un corpo vuoto, risucchiato dal nulla e dal buio agli intellettuali, a quelli che gli si riscoprirono amici, al belletto pomposo e stupefacente dell’ufficialità, allo starnazzamento di chi aveva fatto finta di aver letto tutti i suoi libri senza sapere chi fosse l’uomo che li aveva scritti. Questo, per ricordarlo. Glielo dovevo.
Questo novembre aguzzo, ingombro di nuvolaglie basse nel suo sporco candore di luce malata, questa stagione di pietra, anche quaggiù, dove appena più avanti sunt ancora leones, me lo richiama per contrasto. Forse la madre accarezza nella penombra delle stanze gonfie di volumi il suo vecchio orologio, la medaglia brunita delle elementari e per un momento sogna di spazzolargli la giacca. C’è una musica nella mia stanza, una canzone dedicata ad una donnaccia, meravigliosa nella sua mole immensa. Gesualdo non amava – credo – le donne obese. Il suo essere ridondante, la sua cifra barocca, il suo sproloquio melodrammatico, eccessivo, si asciugavano lungo i fianchi gracili, le membra esili, i seni scarni – due grosse mandorle forse – di Marta, dell’altra, di qualunque donna avesse avuto la dolceamara protervia di sondare la nebulosa della sua vita. Adesso che finalmente ha barattato il suo obolo col nocchiero di quel buio nel quale aveva continuato, disperando, a sperare, scrivo parole che tanti anni fa, per falsa modestia, per sciatteria, per invidia spocchiosa, affidai al silenzio algido di una memoria di computer (ma le macchine non ricordano). Che, improvvisamente, me le ha risputate, quasi estranee, sullo schermo. Certo per caso, evocandole da rimpianti ancora aperti, da grida spezzate dello spirito, da urgenze mai sopite: l’emozione di entrare in una casa illustre, l’imbarazzo pudico mentre gli stringo la mano sullo sfondo delle multicolori penne – oscene, nella parca e saggia discrezione della sua fitta biblioteca – del Gallo del Campiello. Dalla sua voce registrata su un Geloso. Oppure da relitti: il legno stantio del banco del liceo dove leggevo avido la sua Diceria, dalle passeggiate per il nulla nelle strade del mio paese. Eros eros o cat’ommaton stazeis poton… [Eros eros, che fa piovere dagli occhi il desiderio]. Decisi – io che ancora non sapevo discernere i vezzi della carne dalle lusinghe della parola – senz’altro indugio: i pochi dubbi del momento e i rimpianti assenti del mentre (che ancora dura), spazzati via.
Qualcuno mi sputtanò pure – bufalineggiavo troppo – mi dissero alla seduta di laurea, confondendo il guizzo interiore dalla disciplina severa e libresca, la scoperta di una filosofia di vita con la sua fredda necroscopia togata. Oh, non è durato molto: lo odiai già al secondo romanzo. Una insolenza pari alla sua bravura, quella di darsi in pasto attraverso i libri a tutti, lui così schivo, così appartato, così distante. E rivedevo la scena in cui severo lo cassavo in chissà quale foglio o abboccamento letterario, citando Drieu de La Rochelle: beati gli uomini dai pochi libri perché non amano ripetersi… Adesso che da molto tempo tutti i coccodrilli sono tornati, da mesti requiem, nel fiume dimenticato e inutile degli archivi, sono pure pronto a disfarmi anche della mia diceria, misera, indiretta, balbettata per negoziare un foglio di pergamena con su scritto ampollosamente chi non sono. Disfarmene come un peccato scomodo, un errore di gioventù, un amore osceno. Fidando, con quelle stesse mie parole – giustificate ad exornandae le sue – nella peggiore delle vendette: offrirgliele (forse avrebbe detto lui) sulla bianca latomia di un altro libro inutile.