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Non è censura la mediazione dei media in nome della verità

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Travolti da tutto il resto ci siamo soffermati poco su un passaggio avvenuto nei giorni del conteggio dei voti americani, cioè la scelta delle maggiori emittenti televisive di interrompere la diretta con Trump perché manifestamente stava diffondendo notizie false non dimostrabili. E’ del tutto inutile il retropensiero che molti hanno, lo avrebbero fatto se fosse stato in vantaggio o se fosse stato 4 anni fa, non è il tema. Il tema è un altro e travalica anche quello della libertà di espressione, adeguandolo ai tempi.

Trump, nel suo ruolo di presidente della Stati Uniti in carica, da giorni diffonde notizie false, le famose fake news secondo la definizione che ormai gli ha dato tutto il mondo, e i social networks, editori digitali che hanno sempre dimostrato maggior interesse al profitto che all’etica, hanno scelto di oscurarlo. Le catene televisive hanno deciso di fare altrettanto e i media di tutto il mondo ora si domandano, e devono farlo, se si tratti di una forma di censura da parte di essi stessi media.

Guardate che è una questione complicata. Le notizie false sono sempre esistite, compito del giornalista era di smascherarle, spiegarle, contestarle. Ma era il mondo mediatico di prima, quello diverso dall’immediatezza digitale di oggi. La prima forma di informazione immediata è stata ovviamente la diretta radiofonica e poi quella televisiva, immediata ma tuttavia mediata dalla presenza di un professionista, e non a caso è nata la frase “il bello della diretta”.

Ma quando sullo schermo di un qualsiasi supporto digitale appare il tweet di Trump o di chiunque altro la mediazione non c’è più e l’unica possibilità e’ quella di cancellarlo se è palesemente “una bufala”.

E’ un cambiamento epocale. Qualcuno verifica, controlla, si informa, media e, comunque a posteriori, cancella!

Le TV americane hanno rincorso questo modello, che inesorabilmente doveva fare scuola, e hanno applicato il loro codice, oscurando l’autore della fake news e spiegando il perché lo facevano, proseguendo la diretta e facendo quindi pienamente il loro mestiere. La gestione del vulcanico tycoon pone interrogativi e svolte ai media, che potrebbero non tornare più indietro nelle decisioni prese a caldo. Il primo tema che balza agli occhi è quello della censura e della libertà di espressione, addirittura, di un presidente degli Stati Uniti. Ma le situazioni sono diverse.

Un conto sono i social network, sulla cui natura ibrida di piattaforma e di media il dibattito è aperto. Di chi è un social? Del ceo o dei miliardi di utenti? Le regole di una piattaforma sono sufficienti a delineare il campo di ciò che è pubblicabile o non? Dalle risposte discende anche la correttezza o meno – in un sistema comunque liberale – di rimuovere contenuti, per quanto non graditi o non corretti. Persino, come riporta l’Indipendent, di arrivare a rimuovere il profilo stesso di Trump, una volta messo un piede fuori dalla Casa Bianca. 

Altra cosa sono i media come i network tv che si trovano, durante la copertura dell’evento, nella scomoda posizione di dover diffondere un documento in diretta come un discorso di un presidente senza però risultare puro megafono dello stesso, finendo per tradire proprio la missione designata dalla loro definizione. Quella di mediare, appunto, tra fatto e spettatore (o lettore), di fornire una corretta lettura della notizia senza cadere nella propaganda.

E’ in difesa di questa missione del giornalista di mediare in nome della verità, in qualsiasi parte del mondo operi, che io credo si debba difendere il comportamento dei network televisivi americani, pensando con qualche brivido alla domanda: se si riprodurrà una situazione simile in Italia i media che faranno?


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