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Caso Rocchelli, cosa dice il dispositivo che assolve Markiv Vitaly. Resta aperto uno spiraglio al di là del racconto impreciso made in Ucraina

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Per tre giorni un copione studiato ma per nulla preciso ha accompagnato i commenti alla sentenza della Corte d’Appello di Milano che assolve Markiv Vitaly  dall’accusa dell’omicidio di Andrea Rocchelli. Un tam tam slegato dal dispositivo della sentenza che, invece, lega la decisione in modo inequivoco al “non aver commesso il fatto” e quindi alla mancanza di quella che per la Corte poteva essere la madre, definitiva, suggello della ricostruzione della Procura e fatta propria dalla famiglia del giornalista, che è parte civile nel processo. I commenti del filone innocentista di questa storia si riconducono ad una versione che nel dispositivo non c’è, ossia che il fatto non costituisce reato, nel solco della già nota vulgata che ha circondato l’intero processo d’Appello, ossia che Andrea Rocchelli stava “nel posto sbagliato”. O meglio (anzi peggio) che “non doveva essere lì in quel momento”. Tra 90 giorni si conosceranno le motivazioni della decisione della Corte e solo allora si potrà comprendere cosa è mancato per convincere i giudici, posto che è già chiaro ora che le prove non sono bastate, ed è questo che lascia aperto uno spiraglio per andare avanti e “valutare il da farsi” come ha ricordato la mamma del giornalista subito dopo la lettura del dispositivo di assoluzione. Stessa posizione dell’avvocato Alessandra Ballerini che rappresenta i familiari di Andrea e che ha aderito in toto alla ricostruzione della pubblica accusa.

La morte di Andrea Rocchelli ha segnato in modo indelebile il confine tra il racconto possibile e quello vietato in Paesi che non lasciano scampo e non vogliono testimoni scomodi. Il clima che si è respirato nel processo d’Appello ha fatto emergere uno spaccato inquietante circa il tentativo di condizionamento indirettamente (o quasi) messo in campo da uno Stato su un altro. E fa riflettere ciò che è accaduto nelle ore immediatamente successive alla sentenza: il Presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelens’kyj in un post si è complimentato con il Presidente della Repubblica e con il Capo del Governo italiani per l’esito del processo di secondo grado e quindi dell’assoluzione e liberazione della guardia nazionale Vitaly Markiv, esultando per l’effetto avuto dall’hastag #FreeMarkiv molto utilizzato nei giorni precedenti l’ultima udienza. Ci sono in quel post un paio di strafalcioni costituzionali che si possono tollerare solo se si considera che il Presidente ucraino non è tenuto a conoscere la Costituzione Italiana, anche se qualcuno avrebbe potuto spiegargliela. In Italia vige la separazione dei poteri politico, amministrativo e giudiziario. L’Ucraina, purtroppo, questa democratica separazione ancora non la può attuare ed uno dei motivi di preoccupazione che circolano per l’Europa. Nel medesimo post presidenziale c’è anche il riferimento al tam tam sui social, come se ciò fosse parte integrante possibile del libero convincimento dei giudici. Se un militare di altro Stato fosse incappato nella giustizia ucraina forse avrebbe dovuto temere sia il tweetstorm che tutto il resto.


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