BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Un Cile postmoderno con diritti per tutti

0 0

Il Cile non volta solo pagina, cambia libro: con il voto plebiscitario che getta nel cestino della carta straccia la Costituzione di Pinochet (ancora lui, l’ombra che ne riflettono eredi e beneficiati, sì: 32 anni dopo il referendum che lo costrinse alla rinuncia ma non alla resa senza condizioni), ha detto di voler conquistare una democrazia piena, di essere disposto ad affrontarne anche le incognite, talune insidiose, nascoste in un voto che di colpo spinge il paese dell’estremo Sudamerica nella postmodernità. Qualcuno potrà vedervi tracce di populismo (questo termine reso inservibile dai rozzi abusi di cui è vittima), certo è un processo che dopo essersene nutrito adesso travalica anche le politiche riformatrici del Cile seguite agli orrori della dittatura militare, pur di disfarsi delle profonde disuguaglianze rimaste inevase.

 

E’ l’esito di un anno imprevedibile, che tuttavia confusamente (ma non del tutto) rumoreggiava nel ventre del paese, a cominciare dalle proteste studentesche all’avvio di questo decennio, nell’inverno australe 2011 (mille arresti in 12 ore non bastarono a frenarle). Neppure l’esplosione di piazza seguita all’incauto aumento del prezzo dei trasporti pubblici giusto dodici mesi addietro fu intesa nella sua gravità dal governo del presidente Sebastían Piñera, che pure aveva già fatto l’esperienza di 10 anni prima. Nuovamente pensò di soffocarla con i carabineros: idranti a getto super-compresso e pallottole di plastica sparate al volto dei manifestanti che sono rimasti accecati a centinaia per il resto della loro vita e i morti. Il 25 ottobre si è ritrovato con oltre un milione di cileni che occupavano il centro di Santiago: la più grande protesta mai vista nel paese.

 

Una settimana più tardi un gigantesco sciopero generale comprovò che non solo i giovani manifestanti della prima ora erano tutt’altro che isolati, ma l’indignazione per la violenta repressione di cui erano stati vittime (non priva in molti comandi dei carabineros di sadica ferocia), aveva scosso l’opinione pubblica, la sensibilità delle famiglie e delle grandi organizzazioni sindacali e infine della politica tradizionale. Perfino nel partito della destra moderata di Sebastían Piñera, Renovación Nacional, nato ancora con Pinochet al potere per favorire una transizione verso elezioni pilotate, insorsero voci critiche. E sebbene il Presidente non se ne sia subito dato per inteso, vantando un presunto controllo della situazione, la settimana dopo dovette convenire con la grande maggioranza del Congresso nell’annuncio del referendum di questa scorsa domenica.

 

La sua sconfitta appare evidente e (considerata anche l’età) lo esclude da ulteriori ricandidature presidenziali. In questo senso si tratta di una storia politica finita. A succedergli definitivamente è Joaquin Lavin, un economista conservatore, membro dell’Opus Dei e leader della Union Democratica Independiente (UDI), cresciuto durante la dittatura militare accanto e in permanente competizione con Piñera nel vivaio dei giovani pinochetisti. E’una figura sopravvissuta a molte sconfitte grazie alle buone capacità di amministratore e all’assenza di concorrenti di spicco, tuttavia logorata. Nei prossimi mesi dovrà fare i conti (come e più di tutti gli altri) con l’inedito quadro culturale oltre che politico aperto dal voto che sconvolge gli attuali equilibri parlamentari e sociali. Lui ne è però consapevole, a tal punto che ora si dichiara socialdemocratico (altro termine ormai ectoplasmatico).

 

Al rinnovamento ratificato dal voto che per la prima volta nella sua storia porta il Cile verso una Costituzione decisa dal basso, dalla volontà popolare, hanno concorso oltre la metà dei 19 milioni di abitanti. Molti di più di quanti votavano negli ultimi tempi (alle amministrative di 3 anni fa furono il 36 per cento). A dispetto delle serie difficoltà frapposte dalla pandemia del coronavirus, in Cile particolarmente aggressiva per la privatizzazione della sanità che ha lasciato indifesa buona parte della popolazione e per i gravi ritardi del governo a porvi riparo (più di 18mila morti in 7 mesi). La vittoria dei rinnovatori era prevedibile e prevista, non così la sua dimensione, che la trasforma in un trionfo. La decisione tattica della destra di non ostacolarla apertamente, anzi di aderirvi in parte, nel segreto delle urne è sfuggita di mano.

 

Gli elettori erano chiamati a due scelte. La prima: dire si o no a una nuova Costituzione. E qui talmente esplicita e forte era la pressione popolare a favore, che tutti i partiti hanno invitato a rispondere positivamente. La seconda: indicare se la Convenzione di 155 costituenti chiamata a redigerla dovesse essere composta per intero di nuovi eletti, oppure dovesse avere una composizione mista, metà di nuovi eletti e metà di esponenti del Parlamento in proporzione alla loro rappresentatività (formula quest’ultima che avrebbe favorito la destra, attualmente maggioranza). L’80 per cento circa, una votazione schiacciante, ha scelto che la formulazione della nuova carta magna del paese, la base del suo prossimo patto sociale, sia affidata a nuovi eletti. Un nuovo Testamento governerà il Cile.

 

E’, a oggi, l’unica certezza. Poiché il risultato del Referendum, pur nella sua clamorosa unicità, apre un processo lungo e complesso, le cui conclusioni politiche e sociali appaiono niente affatto scontate. Basti considerare che la Convenzione Costituente voterà secondo i quorum stabiliti nella vecchia costituzione.  Il rinnovamento si presenta inesorabile e se dovesse deludere oltre ogni ragionevole aspettativa potrebbe dare luogo a contrasti d’imprevedibili conseguenze. Tali che nessuno se lo augura. In definitiva si tratta di aprire i diritti costituzionali alle necessità dei ceti meno abbienti, ridurre le disuguaglianze di principio, garantire a tutti l’accesso a istruzione e sanità, la libertà di genere, l’adeguamento dei salari al costo della vita per rilanciare un’economia che è implosa a causa delle ristrettezze del mercato di consumo interno. A quasi mezzo secolo dall’elezione di Salvador Allende, il Cile si pone nuovamente di fronte a un esperimento politico esemplare.

 


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21