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Rocchelli, ecco come vogliono ribaltare la verità sulla sua morte. L’inchiesta del settimanale L’Espresso

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Pubblichiamo un’inchiesta di Fabrizio Gatti apparsa su L’Espresso di questa settima in cui si rilancia quanto rilevato da tempo da Articolo 21 attraverso gli articoli di Mariangela Gritta Grainer e Antonella Napoli, ovvero il tentativo di ribaltare la sentenza di condanna in primo grado di Vitaly Markiv, ritenuto responsabile della morte di Andrea Rocchelli e Andrej Mironov avvenuta il 24 maggio del 2014  in Ucraina. 

Non è facile sopportare ogni giorno gli insulti al proprio figlio, ora che non può nemmeno difendersi: la continua insinuazione che sia andato a Sloviansk per aiutare una banda di terroristi, lungo il fronte fratricida tra ucraini e russi. Anche perché Andy, il loro ragazzo, il fotorepoter di Pavia Andrea Rocchelli, per quel lavoro di testimone che aveva scelto è stato ucciso, insieme con il suo interprete, l’attivista per i diritti umani Andrei Mironov. Gli assassini li hanno braccati nel fosso dove si erano rifugiati. Venti minuti di lanci da una schiera di mortai, almeno venti-trenta esplosioni, a distanza di dieci-quindici metri l’una dall’altra, il tempo di aggiustare la mira. Era il benvenuto contro un piccolo gruppo di giornalisti europei, disarmati, inoffensivi. Ma visti da lassù, dalle postazioni dei tiratori sulla collina Karachun, ugualmente pericolosi: perché con le loro foto, Andy e un collega francese gravemente ferito nell’agguato sta vano documentando le vergogne, perpetrate sui civili da questa nuova guerra nazionalista nel cuore dell’Europa.

Non è facile nascondere l’irritazione di fronte ad accuse vigliacche. Ancora oggi l’agenzia d’informazione Myrotvorets.center, molto vicina all’intelligence e al ministero dell’Interno ucraini, pubblica gli elenchi di presunti terroristi russi, criminali di guerra e traditori insieme con i nomi dei giornalisti considerati nemici dell’Ucraina, per non aver suonato la propaganda di Kiev. E sulle loro pagine personali, lo stesso sito mostra le foto di Andrea e di Andrei con l’agghiacciante scritta in sovrimpressione rossa: «Liquidato». Una disgustosa vicenda che sta guastando i rapporti con l’Italia.

Rino Rocchelli, il papà ingegnere in pensione, la mamma Elisa Signori, docente di Storia contemporanea all’Università di Pavia, la sorella Lucia e la compagna di Andrea, Mariachiara Ferrari, non hanno mai perso la calma e la silenzio- sa fiducia nei giudici. E non la perdono ora che il governo di Kiev in vista del secondo grado del processo, comincia- to il 29 settembre davanti alla Corte d’assise d’appello di Milano, ha avviato una massiccia campagna per ottenere la liberazione dell’unico condannato: Vitaly Markiv, 31 anni, doppia cittadinanza italiana e ucraina, detenuto nel carcere di Opera, su cui pende la sen- tenza della Corte d’assise di Pavia a ven- tiquattro anni per concorso nel duplice omicidio.

Di solito, quando al fronte vengono assassinati un fotografo, un operatore, o un giornalista, è impossibile accerta- re la verità dei fatti. Con poco rispetto per il loro coraggioso impegno che ci aiuta a comprendere il mondo, ci si ras- segna all’idea che si siano trovati nel posto sbagliato. Grazie alle indagini del Ros dei carabinieri e della Procura di Pavia, la sentenza di primo grado racconta invece che Andrea Rocchelli, 30 anni, Andrei Mironov, 60, e il collega fe- rito, William Roguelon, allora 28, erano nel giusto luogo dove un reporter lavora. E dove non si sparava più. Rocchelli e Mironov sarebbero ancora vivi, se non fosse stato per un plotone di artiglieri rimasti sconosciuti e per il soldato Vitaly Markiv, fervente volontario della Guardia nazionale ucraina, che su quel- la collina dava appoggio all’esercito regolare e, dalla sua postazione che dominava la pianura, comunicava via radio le coordinate per aggiustare i tiri di mortaio. È proprio Markiv, poche ore dopo il duplice omicidio, a confessare l’attacco contro il gruppo di civili.

Il 24 maggio 2014 Rocchelli, Mironov e Roguelon scendono da un taxi vicino a una fabbrica e si avviano a piedi verso un passaggio a livello, costruito da alcuni carri merci crivellati dalle bombe. Vitaly Markiv ne parla con la giornalista freelance Ilaria Morani. «Le modalità furono proprio quelle descritte a Ilaria Morani da Markiv, in quella confessione stragiudiziale», è scritto nella sentenza di primo grado firmata il 12 luglio 2019 dalla presidente della Corte d’assise, Annamaria Gatto, e dal giudice estensore, Daniela Garlaschelli, «elemento rilevante del compendio probatorio che l’imputato non ha saputo/potuto smentire al dibattimento e che, invece, ha trovato piena corrispondenza nelle ulteriori decisive prove acquisite».

I giudici hanno infatti valutato decine di fotografie e filmati che Markiv faceva e si faceva durante i suoi turni di guerra lungo la prima linea. Una quantità di immagini, estratte anche dal telefonino personale, tanto esaustive che il procuratore di Pavia, Giorgio Reposo, e il pubblico ministero, Andrea Zanon- celli, non ritennero necessario il sopralluogo in Ucraina.

«Markiv», aggiunge la sentenza, «nella sua funzione di capo-postazione, pur in assenza di qualsivoglia attacco di fuoco della parte nemica, insospettito dai movimenti dei giornalisti avvicinatisi in prossimità del treno, si mosse “sparando a tutto quello che si muoveva nel raggio di due chilometri”, secondo quella che è apparsa essere la consueta modalità di azione bellica congiunta della Guardia nazionale e dell’esercito. E, del resto, è stato proprio l’imputato a dare corpo a questa ricostruzione quando ha affermato che, pur in assenza di scontri in atto e di persone che indossavano divise militari in uso ai filorussi, era usuale guardare con sospetto anche ai civili, visti come possibili nemici». La sentenza riconosce quindi che Markiv «partecipò alla prima sparatoria con i fucili Ak74 contro i giornalisti nelle vicinanze del muro della fabbrica Zeus, con cadenza a raffiche mediante tiro a saturazione… con il maggior volu- me di fuoco disponibile. Non riuscendo ad attingere i giornalisti con il kalashnikov, proseguì la propria azione seguendone i movimenti grazie al mirino ottico in dotazione, comunicando attraverso il proprio comandante con l’esercito (“Carichiamo l’artiglieria pesante”), al fine di colpi- re il taxi per impedire la fuga e immobilizzare e eliminare i soggetti nel bosco, ove si erano rifugiati».

A quel punto, secondo quanto è stato stabilito nel processo, il soldato Markiv segnala via radio le coordinate che soltanto dalla sua postazione può indicare con precisione. La distanza, di poco superiore al chilometro e mezzo, è infatti eccessiva perché il suo fucile possa col- pire con efficacia. Ma è sufficiente per- ché, attraverso l’ingrandimento di un binocolo, possa distinguere se le perso- ne inquadrate imbracciano armi o, ad- dirittura, se hanno la barba lunga, come lui stesso dichiara in un video. Proprio Markiv, secondo i giudici, dirige i colpi di mortaio che hanno invece una gittata di oltre quattro chilometri: «Consentendo di calibrare quei colpi che Roguelon ha descritto come preci- si, in progressivo avvicinamento e aggiustamento, a distanza di sei secondi e che, in sequenza, lo attinsero alle gambe, poi caddero accanto a Rocchelli e Mironov, con un colpo più vicino, dalle conseguenze letali.  L’azione proseguì (anche) quando la fazione ucraina comprese la presenza di sopravvissuti all’attacco, nuovamente crivellando di proiettili il taxi in fuga e, infine, il veicolo che portò in salvo Roguelon per eliminare l’ultimo scomodo testimone della vicenda».Vitaly Markiv non ha quindi ucciso con il suo fucile, ma secondo la sen- tenza ha guidato il bombardamento a tappeto sulla piccola striscia di alberi e cespugli dove Rocchelli, Mironov, Roguelon e il tassista si erano protetti. Da questa conclusione comincia il processo d’appello, chiesto dai difensori, gli avvocati Raffaele Della Valle e Donatella Rapetti, ora sostenuti dalla campagna mediatica lanciata dal go- verno ucraino.

A fine agosto il ministro dell’Interno di Kiev, Arsen Avakov, ha infatti illustrato, con un ritardo di sei anni, la controindagine che ovviamente scagiona Markiv. Secondo la sua versione, Rocchelli e Mironov sono stati uccisi dai ribelli russi: una tesi che, sempre secondo il governo ucraino, i magistrati italiani avrebbero ignorato per il mancato sopralluogo sulla collina Karachun, giudicato superfluo dalla Corte d’assise per l’abbondanza di foto e video. Gli stessi dubbi sono sostenuti in Italia dai Radicali che, per dare voce al-la causa ucraina, hanno presentato a Roma il film “The wrong place”, il posto sbagliato, titolo del documentario definito indipendente dagli autori Cristiano Tinazzi, Olga Tokariuk, Danilo Elia e Ruben Lagattolla. Una controinchiesta che, secondo loro, fa luce su «una sentenza che non spiega nulla, perché basata unicamente su prove indiziarie e che sembra aver trovato un capro espiatorio per mettere la parola fine a una tragedia».

Durante l’affollato incontro nella sede romana dei radicali, l’indipendenza della presentazione è stata smentita dall’intervento del viceministro dell’Interno di Kiev, Anton Gerashchenko. È lo stesso politico accusato dai giornalisti ucraini dopo la pubblicazione sul sito dell’agenzia Myrotvorets dei numeri di telefono personali e degli indirizzi email di tutti i colleghi nazionali e inter- nazionali che avevano ricevuto l’accredito stampa nei territori occupati dai ribelli filorussi. Un documento necessario per poter svolgere in sicurezza il loro lavoro. «I giornalisti ucraini condannano le azioni di Gerashchenko e del sito Myrotvorets. Pubblicare gli indirizzi email privati e i numeri di telefono corrisponde a un reato», scrivono i reporter riuniti nell’Ukraine Crisis Media Center: «Rendere questi dati pubblici sottopone i giornalisti a pericoli aggiuntivi». Il sito è lo stesso che si compiace della morte di Rocchelli e Mironov con la scritta “liquidato”.

Non sarà semplice, nemmeno per il regista Cristiano Tinazzi, smontare la quantità di prove contenute nelle centosettantasei pagine della sentenza di primo grado. Alcune sequenze del suo documentario rischiano addirittura di fornire nuovi argomenti all’accusa. Ad esempio, durante l’esperimento di tiro in un poligono militare ucraino contro la sagoma in legno di un’auto piazzata a un chilometro e mezzo di distanza, si ha conferma di tre importanti circo- stanze. La prima: l’esercito di Kiev, che tuttora protegge i complici del duplice omicidio rimasti sconosciuti, partecipa al tentativo di liberare Vitaly Markiv. La seconda: da millecinquecento metri, con il mirino ottico in dotazione, l’auto si vede benissimo, tanto da distinguerne i finestrini, le ruote e le eventuali persone a terra, proprio co- me avevano verificato nei video e nelle foto i giudici di Pavia. La terza: il proiettile calibro 5,45 ha ancora l’energia tanto dalla sua postazione può indicare con precisione. La distanza, di poco superiore al chilometro e mezzo, è infatti eccessiva perché il suo fucile possa col- pire con efficacia. Ma è sufficiente per- ché, attraverso l’ingrandimento di un binocolo, possa distinguere se le perso- ne inquadrate imbracciano armi o, ad- dirittura, se hanno la barba lunga, come lui stesso dichiara in un video.

Proprio Markiv, secondo i giudici, dirige i colpi di mortaio che hanno invece una gittata di oltre quattro chilometri: «Consentendo di calibrare quei colpi che Roguelon ha descritto come preci- si, in progressivo avvicinamento e aggiustamento, a distanza di sei secondi e che, in sequenza, lo attinsero alle gambe, poi caddero accanto a Rocchelli e Mironov, con un colpo più vicino, dalle conseguenze letali… L’azione pro- seguì (anche) quando la fazione ucraina comprese la presenza di sopravvis- suti all’attacco, nuovamente crivellando di proiettili il taxi in fuga e, infine, il veicolo che portò in salvo Roguelon per eliminare l’ultimo scomodo testimone della vicenda».

Le parti civili, rappresentate da- gli avvocati Alessandra Balleri- ni ed Emanuele Tambuscio per la famiglia Rocchelli, Giuliano Pisapia per la Federazione nazionale della stampa italiana e Gian Luigi Tiz- zoni per Cesura, il collettivo fotografico di Andy, considerano le motivazioni scritte nella sentenza di primo grado pienamente coerenti e documentate. Forse anche per questo giorni fa il ministro dell’Interno Avakov e il suo vice Gerashchenko, il politico che sostiene il sito Myrotvorets, sono comparsi in udienza a Milano. Lo stesso giorno in cui la presidente della Corte d’assise d’appello, Giovanna Ichino, annuncia irritata in aula di avere ricevuto un’e- mail irrituale dal ministero della Giusti- zia ucraino. La destra nazionalista di Kiev vuole trasformare la condanna in un caso politico.

Ma il vero nemico del soldato Markiv è solo Vitaly Markiv. L’unico nuovo documento, che il sostituto procuratore generale Nunzia Ciaravolo ha chiesto di acquisire, è infatti un brogliaccio dei carabinieri del Ros, compilato durante un’intercettazione in carcere. Secondo la trascrizione, il detenuto Markiv parla con un compagno di cella. E gli dice così: «Nel 2014 abbiamo fottuto un reporter». Il processo riparte da quei file audio. E dalla notizia, trasmessa per competenza alla Procura, che l’inter- prete che avrebbe dovuto tradurli si è dimessa per le minacce ricevute dalla sua famiglia in Ungheria.


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