In Bangladesh sono passati due anni dall’entrata in vigore della Legge sulla sicurezza digitale, una norma draconiana che prevede fino a 10 anni di carcere per chi, attraverso mezzi digitali, diffonde “propaganda” contro la Guerra di liberazione del Bangladesh, l’inno nazionale o la bandiera nazionale. In caso di reiterazione del reato è previsto addirittura l’ergastolo.
Dall’8 ottobre 2018 quelle norme sono state applicate 2000 volte, 800 delle quali solo nei primi nove mesi di quest’anno: il segno che anche in questo paese dell’Asia meridionale si è approfittato della pandemia da Covid-19 per ridurre al silenzio le voci critiche.
Ma più che gli eroismi bellici o i simboli nazionali, gli argomenti che sono risultati tabù hanno invariabilmente riguardato l’azione di governo del partito di maggioranza, la Lega Awami: casi di corruzione, morti sospette in carcere e altro ancora.
A finire sotto inchiesta o a essere rinviati a processo non sono solo singoli utenti dei social, ma sempre più spesso direttori di portali informativi nazionali o locali: come Shafiqul Islam Kajol, direttore del “Daily Pokkhokal” e scomparso dopo l’arresto per 53 giorni; Matiur Rahman, direttore di “ManabZamin”; Mahiuddin Sarker, direttore ad interim di “Jagonews24.com”; Toufiqlmroz Khalidi, direttore di “bdnews24.com”; Ramzan Ali Pramanik, direttore di “Dainik Grameen Darpan”; Khandaker Sharin, direttore di “Narsingdi Pratidin”; e AMM Bahauddin, direttore di “Inqilab”.