Ho conosciuto Andrea Rocchelli tre mesi dopo la sua morte

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Andrea, un fotoreporter di talento, viene ucciso da una serie ripetuta di colpi di mortaio vicino a Sloviansk in Ucraina il 24 maggio 2014. Muore con lui anche il suo amico giornalista russo Andrej Mironov mentre il fotoreporter francese William Roguelon è ferito gravemente, si salva e sarà, come vedremo, un testimone prezioso dell’accaduto così come l’autista del taxi che li ha accompagnati. E c’è anche un quinto uomo della cui esistenza si scoprirà più tardi.

La notizia di questa tragedia ci raggiunge mentre stiamo preparando le iniziative dedicate a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin nel ventennale della morte in programma per la prima decade di settembre. Entriamo subito in contatto con CesuraLab, il collettivo di fotografia fondata da Andrea insieme ad altri quattro giornalisti. Si decide, sentita la famiglia, di organizzare una mostra di sue fotografie nell’ambito del ventesimo e ultimo premio giornalistico a Ilaria dedicato. Verrà allestita a San Marino.

Ho conosciuto Andrea dalle sue fotografie, che raccontano per prima cosa di lui, dei suoi valori, delle passioni che trapelano dalle storie intense che narra con le immagini: storie di persone nei teatri di guerra e non solo. Per scrivere un buon pezzo e/o scattare una bella foto occorre conoscere la realtà. Si devono andare a vedere i luoghi e gli sguardi, i colori. Saperli distinguere, odorare i profumi, udire le voci, perché in ogni posto in cui si va, non è detto che questi siano come li abbiamo sempre pensati, visti. Ecco Andrea lavorava così.

Ho conosciuto Andrea dagli incontri con Elisa Signori e Rino Rocchelli, i suoi genitori; con Mariachiara, la sua compagna, e Nico, il loro bambino di poco più di tre anni. Alla conferenza per l’inaugurazione della mostra, Elisa e Rino diranno parole d’amore e di orgoglio nei confronti di Andrea: “…Aveva una grande capacità di entrare in sintonia, di diventare amico con le persone: solo così si spiegano questi scatti così intimi, empatici che ritraggono la vita quotidiana delle famiglie dei bambini costretti a vivere dentro i bunker…”. E poi Elisa commenta con emozione la foto all’ingresso della mostra:

“…E’ una delle poche, forse l’unica, in cui compare anche Andrea. Non so perché lì sia così serio. Lui sorrideva sempre…”

Ricordando queste parole di Elisa ho pensato alle foto scattate da Andrea, che ci mostrano proprio i momenti prima della sua morte. Incredibile.

Raccontano Elisa e Rino che solo due anni dopo quel tragico 24 maggio si accorgono che all’obitorio di Sloviansk c’è stata una mano amica che ha fatto in modo che le macchine fotografiche di Andrea consegnate loro, fossero solo apparentemente senza schede.

Saranno gli amici di Andrea del CesuraLab a scoprire in una tasca della custodia tre schedine: le foto della laurea della sorella Lucia, le foto del pomeriggio del 24 maggio comprese le ultime trenta, scattate durante la sequenza a raffica dei colpi di mortaio che lo uccidono: si vede che sono sotto la collina di Karachun, dentro un fosso per ripararsi, compreso anche il quinto uomo che sarà poi identificato.

Ho conosciuto Andrea dalle parole di Mariachiara, la sua compagna; poche e intense: amore dolore immensi. Preoccupazione per Nico, il figlio piccolo, al quale non sapeva ancora come dire che il papà non sarebbe più tornato.

Impegno solenne insieme con tutta la famiglia per avere verità, non vendetta, ma verità e giustizia.

A Riccione arriva in quei giorni la Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini: incontrerà Mariachiara privatamente. Un bell’incontro diranno tutte e due. Io ho avuto modo nel frattempo di stare un po’ con Elisa, Rino e Nico. Un bellissimo bambino, affabile e curioso. Faceva un sacco di domande di vario tipo: chi ero, cosa facevo lì, perché, e altre ancora. Non so se ho risposto secondo le sue aspettative, ma di certo mi ha mostrato di stare bene lì, con me, senza parole, ma con un gesto: raccolse per me varie erbe profumate e no, aghi di pino qualche fiore di campo. Le conservo ancora, nel blocchetto di appunti di quel ventesimo premio.

Ho conosciuto Andrea leggendo molto di quanto è stato scritto di lui, del suo lavoro, oltre ai materiali principali del processo di primo grado che si è concluso il 12 luglio  2019, la sentenza e le motivazioni complete.

Conoscere, cercare svelare e raccontare con le immagini le ingiustizie, le violenze, le guerre, le diseguaglianze insopportabili con uno sguardo sul mondo e uno sull’Italia: una scelta etica che si rintraccia sempre nei suoi lavori a partire dai luoghi e dai temi scelti.

Traspare questa identità di Andrea non solo dalle parole di chi lo ama, degli amici, dei colleghi giornalisti che hanno scritto e scrivono di lui ma anche dalla cura e meticolosità con la quale è scritta la sentenza e, immagino, dalle modalità  dell’intero processo.

Ho conosciuto Andrea anche da giornalisti “indipendenti” (come si autodefiniscono), impegnati dopo la sentenza a contrastarla, a produrre un documentario che “ristabilisca la verità sui fatti del 24 maggio 2014” (il titolo “The wrong place” è già molto eloquente). Dicono di aver lanciato un “crowdfunding” di cui però non si conoscono i generosi finanziatori, che forse saranno svelati alla presentazione del lavoro svolto e finito.

Stupisce di trovare insieme a loro esponenti radicali e di “Più Europa” che il primo settembre 2020 presentano in anteprima, 34 minuti del girato del documentario. Già 13 giorni dopo la sentenza di condanna avevano promosso in Senato una conferenza stampa dal titolo “Ombre russe”,  presente l’avvocato della difesa Della Valle. Gli stessi, il 6 dicembre 2019, si erano rivolti all’Europa chiedendo di assicurare la presenza di osservatori al processo d’appello di Vitaly Markiv, cittadino italiano, militare della guardia nazionale ucraina arrestato nel 2017 a Bologna, condannato a 24 anni di carcere per il reato di concorso in omicidio plurimo e in tentato omicidio definendo la sentenza della Procura di Pavia un “gravissimo atto di mala giustizia”.

Si può affermare convintamente, dopo averla letta ovviamente, che la sentenza di condanna è molto ben motivata e non è certo solo indiziaria come la difesa e altri, appunto, vorrebbero sostenere.

Provo ad elencarne le ragioni principali che costituiscono prove “oltre ogni ragionevole dubbio” come recita l’art. 533 c.p.p., al comma 1 (“Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”).

Si sa che l’Ucraina viveva da tempo una crisi tra nazionalisti e separatisti filorussi. L’uscita della Crimea dall’Ucraina e la conseguente annessione alla Russia di Putin aveva mostrato la difficoltà dell’Europa di giocare un ruolo pacificatore e innovativo dal punto di vista geopolitico.

L’Europa, il 25 maggio 2014, rinnovava il parlamento Europeo e, contemporaneamente, in Ucraina si svolgevano le elezioni per il nuovo Presidente. A queste elezioni l’Europa inviava degli osservatori per controllarne la regolarità. E’ credibile, anche per questo, che il 24 maggio nella zona di Sloviansk non fosse in corso alcun conflitto armato, come confermato dalla ricostruzione di quella giornata, contenuta nella sentenza di condanna a 24 anni di Markiv.

Si sa perché Andrea era andato lì insieme ai suoi compagni. Per raccogliere prove e indizi su una realtà intollerabile di come vivono le vittime innocenti di ogni conflitto. Dare loro un volto. Perché non ci sono solo militari ucraini e separatisti filorussi che si fronteggiano, ma stanno nel mezzo anche i civili inermi, come sempre. Come essi vivano e muoiano è testimoniato anche nel libro dedicato ad Andrea, “Evidence” (il titolo riprende un termine inglese utilizzato da Andrea per definire il lavoro del fotoreporter: raccoglitore di indizi, di prove). E in effetti quegli scatti postumi di Andrea sono accuse e prove senza appello come quelli che ritraggono bambini pigiati dentro una specie di dispensa interrata, poco illuminata, una specie di prigione/rifugio.

Si sa che Andrea non è andato a cercarsela:” …Riusciva a tirar fuori storie pazzesche dalle persone e perfino dagli oggetti…dopo la Libia si interrogò sui pericoli del suo lavoro – fino a dove posso avvicinarmi, dove devo stare? – Si rispose – Devo stare il più vicino possibile alle storie e alle persone, non al pericolo – Era davvero una volpe scapigliata, i suoi amici scout non avrebbero potuto dargli il nome di un animale domestico, Andrea era un animale del bosco…” (sono parole di Mariachiara tratte dalle dichiarazioni rilasciate a Mario Calabresi per il Venerdì di Repubblica del 15 maggio 2020)

Si sa che Andrea e gli altri, arrivati sotto la collina del Karachun, iniziano a fotografare la strada, un treno e altre cose. Da sopra la collina, qualcuno inizia a sparare colpi di armi “leggere”: lì sono appostati i militari dell’esercito ucraino e i volontari della guardia nazionale. Non c’è un conflitto in corso.

Il gruppo è “armato” di sole macchine fotografiche: capiscono che c’è un’aggressione, scappano e si rifugiano sotto gli alberi in un fossato parecchio profondo. Non sono in salvo però. Dalla collina inizia una serie di colpi di mortaio che dura molti minuti (che saranno sembrati un’eternità) e che si capisce subiscono una correzione di mira diverse volte: per colpire il gruppo di inermi. E’ in questa situazione che Andrea continua a scattare fino alla morte: sono i 30 scatti di cui parlavo all’inizio e che nessuno proprio nessuno può contestare: costituiscono la prova.

Si sa anche che la difesa di Markiv, e lui stesso, sostengono che a sparare siano stati i separatisti filo russi che presidiavano la fabbrica Zeus Keramik, prospiciente il fossato in cui il gruppo si rifugiò, a pochi metri di distanza, o in subordine che ci sia stato fuoco incrociato delle parti in cui il gruppo di giornalisti è incappato. A supporto di questa tesi lamentano la scarsità di testimoni dell’accusa, il mancato sopralluogo e altro ancora, prefigurando un accanimento nei confronti dell’imputato poi condannato.

Si sa che le persone del gruppo erano cinque. Andrea e Andrej: uccisi. William ferito gravemente che si salva e la sua testimonianza è netta: “Sono certo che i colpi di mortaio provenivano dalla collina, dagli Ucraini”; Kushman, non è stato scoperto ora, è il tassista chiamato a testimoniare dalla difesa e che non si è mai presentato al processo. Ci sono però diverse sue dichiarazioni rilasciate alla polizia ucraina fin dal maggio 2014 che confermano quelle di William Roguelon. È di Kushman una deposizione presso un avvocato locale nel 2015 per avviare una procedura legale contro il governo Ucraino. Non certo favorevoli alla difesa, dunque. Forse per questo non è stato fatto ogni sforzo per farlo arrivare a testimoniare.

Maxim, il quinto uomo, è l’altro testimone oculare sopravvissuto. Di lui dà notizia William nella sua prima deposizione alla gendarmerie francese (settembre 2014). In Italia si conosce il suo volto dopo il ritrovamento dei famosi 30 scatti di Andrea. Gli inquirenti italiani lo hanno identificato tardi, solo dopo la fine del processo nell’agosto 2019. Ma la polizia ucraina sapeva dal 2015 dell’esistenza di questo potenziale teste. Nella risposta ucraina alla rogatoria internazionale non ne diede notizia.

Si sa chi è Vitaliy Markiv. Cittadino italiano, nato in Ucraina e cresciuto con la mamma a Tolentino, nelle Marche: è stato arrestato il 30 giugno 2017 appena atterrato all’aeroporto di Bologna al suo rientro da Kiev, grazie a una paziente indagine del Pubblico Ministero della Procura di Pavia con l’impegno dei carabinieri del Ros di Milano. Ma chi è Vitaly Markiv come persona, come attitudine lo si è visto quando si è presentato al processo come un eroe dello Stato Ucraino e come tale acclamato anche con disordini in aula dai suoi sostenitori.

Si sa ma è bene ribadirlo che le vittime di quanto è successo quel 24 maggio sono Andrea Rocchelli e Andrej Mironov, che sono stati uccisi, e William Roguelon, ferito gravemente ma sopravvissuto, potendo così testimoniare l’accaduto più di altri che si siano recati a fare sopralluoghi, anni dopo.

Si sa che Markiv, come capo postazione, stava sulla collina e la precisa posizione è acquisita e confermata anche da un video/selfie dello stesso Markiv e da intercettazioni telefoniche piuttosto esplicite sull’accaduto. Egli era in grado di monitorare gli spostamenti dei “bersagli” e di fornire le coordinate agli addetti ai mortai per consentire l’aggiustamento del tiro perché progressivamente si arrivasse a colpire il bersaglio.

La lettura…di tutto il compendio probatorio consente di ritenere, oltre ogni ragionevole dubbio, la responsabilità del prevenuto in concorso con i propri commilitoni, con il comandante…e con i membri della brigata 95 dell’esercito in ordine ai reati di omicidio (di Rocchelli e Mironov) e di tentato omicidio (di Roguelon) (pag.145 della sentenza).

Si sa dunque che l’attacco contro civili inermi partì dalla collina di Karachun, frutto di un’azione concertata della Guardia nazionale e dell’esercito ucraino, secondo la derivazione della catena generale di comando, nella consueta modalità di azione congiunta: “sparare a tutto quello che si muove nel raggio di due chilometri”.

Non si tratta dunque di accanimento nei confronti di Markiv che ha agito in concorso con altri, insieme alla responsabilità del governo Ucraino che, solo dopo l’arresto dell’imputato, ha dichiarato una disponibilità a un’inchiesta congiunta. Per tre anni, infatti, Kiev non ha prodotto nulla, nemmeno una perizia balistica sui proiettili e le schegge estratti dal corpo di Andrea nè dai residui di mortaio consegnati da Kusman.

Si sa che il presidente dell’Ucraina Volodimir Zelensky, in visita in Italia il 7 e 8 febbraio 2020, ha incontrato il nostro Presidente del consiglio Giuseppe Conte. Forse quel 24 maggio 2014 di morte non è stato argomento del colloquio anche se sembra che il Presidente ucraino abbia chiesto la liberazione di Markiv e informato che il Parlamento ucraino (RADA) aveva votato quasi all’unanimità una mozione di disapprovazione dell’operato della giustizia italiana. Possiamo verificare, e in ogni caso un impegno del nostro Paese per verità e giustizia sarebbe cosa buona e giusta.

Si sa che la magistratura ha tenuto saldamente ancorato il caso all’esame di un fatto criminoso preciso escludendo dall’inchiesta ogni elemento che potesse portare a una polarizzazione politica. Cosa che è accaduta invece durante alcune udienze con la presenza massiccia dei sostenitori dell’imputato, con una folta rappresentanza ucraina piuttosto intemperante al punto che l’aula fu fatta sgomberare dal giudice.

Si sa dunque che le vittime giunsero a bordo di un taxi, che indossavano abiti civili, che erano intenti a scattare fotografie, “…che furono fatti ripetutamente oggetto di artiglieria leggera e pesante insieme al taxi… per impedire la fuga …al deliberato fine della loro eliminazione.

Il comportamento tenuto è in violazione delle norme del diritto umanitario e della IV convenzione di Ginevra (17.3.1950) che tutela i civili in tempo di guerra vietando violenze contro la vita e l’incolumità di coloro non direttamente coinvolti nelle ostilità compresi i giornalisti e fotoreporter nei teatri di guerra”. (pag. 145)

Si sa che a fianco della famiglia Rocchelli assistita dagli avv. Alessandra Ballerini e Emanuele Tambuscio, si sono costituiti parte civile al processo anche Cesura, il collettivo fotografico di Andrea, assistito dall’avv. Gianluigi Tizzoni,  la Federazione Nazionale della Stampa insieme all’Associazione Lombarda dei giornalisti, con l’assistenza legale degli avvocati Giuliano e Margherita Pisapia. Alla sentenza Giuseppe Giulietti ha dichiarato:

“È una sentenza importante, per Andrea e per tutti i giornalisti e fotoreporter, per la libertà di stampa, per il loro diritto dovere di raccontare con le parole e le immagini che cosa succede nel mondo, secondo i principi sanciti anche dall’articolo 21 della nostra Costituzione”.

Il prossimo 29 settembre si apre il processo di appello.

 

Teniamo tutti in mente la lucida dichiarazione di Elisa Signori dopo la scoperta degli ultimi trenta scatti con i quali Andrea ha raccontato la sua morte.

«Per noi sono immagini drammatiche, le ultime scattate da nostro figlio poco prima che venisse ucciso. Importanti almeno per due motivi: da un lato confermano la presenza di un quinto uomo nel gruppo, taciuta nell’inchiesta ucraina, un testimone oculare cruciale, che andrebbe rintracciato. Dall’altro, come già emerso dal fotografo francese (che parla di 40-60 colpi diretti soltanto su di loro) e dall’autista, dimostrano un accanimento di chi ha sparato proprio sui giornalisti. … …Fuoco prolungato, che mira sistematicamente al fondo del fosso dove i cinque si erano rifugiati per sfuggire agli spari. Sulla strada adiacente ci sono ancora evidenti segni di bombardamento, li abbiamo visti noi stessi quando ci siamo recati a Sloviansk. Forse mortai, o granate…. Andrea ha continuato a scattare fino all’ultimo e ci ha lasciato una documentazione di quello che stava succedendo. Forse aveva capito che stavano per morire. Per colpire in quel profondo fosso fino a uccidere due persone e ferirne una terza, bisogna sceglierlo come obiettivo. Non un tiro casuale che serve a spaventare o cacciare via degli intrusi. In quel momento in mezzo alla piana, “scoperti”, c’erano solo loro». (da l’Espresso del 10 ottobre 2016)

 

Mariangela Gritta Grainer


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