BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

“Addio Peppino, con te abbiamo vissuto gioie e delusioni nella bella Unità”

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Se scavo nella memoria ho l’immagine sua, ritto nella stanza dei redattori capo, quel suo sguardo curioso dietro le lenti, mentre mi chiede: come facciamo la prima pagina domani? Oppure, seduto nella sua stanza, le gambe poggiate sulla sua scrivania, qualche moneta che passa per gioco da una mano all’altra tintinnando e quella risata, quasi a singhiozzi, quando ti raccontava qualche scemenza nei pochi minuti di pausa dal lavoro.E’ difficile accettare l’idea che Peppino Caldarola non ci sia più. Che se ne sia andato a 74 anni, quando aveva sicuramente molto da raccontarci e molto da dirci, lui che guardava il mondo come un vecchio comunista abituato all’analisi reale della situazione reale. Non si accontentava mai della prima risposta, quella più facile che non riesce mai ad andare al di sotto della superficie delle cose. Peppino invece voleva entrarci dentro le cose, voleva afferrarle, capirne il senso e la direzione. Era una persona serena, e portava la sua gentilezza e la sua calma in quel mondo turbolento del giornale. Era una persona saggia e la sua saggezza è stata messa diverse volte alla prova quando il mondo che ci girava attorno faceva troppo le bizze. Era una persona colta, lui cresciuto nella casa editrice Laterza a Bari e in quella scuola politica pugliese che scherzosamente chiamavamo l’”école barisienne” dominata da figure importanti come Alfredo Reichlin e Giuseppe Vacca.

Si portava dietro questo bagaglio umano, culturale e politico Peppino quando approdò nelle stanze dell’Unità e scriveva di politica o di economia. O quando preparava i numeri di Rinascita, negli anni belli della rivista comunista. Persino quando arrivò a Italiaradio e affrontò senza paura il nuovo mestiere della voce al posto di quello delle parole scritte.

Non era un gran titolista, e lo sapeva, ci scherzava su e lasciava fare a chi pensava facesse meglio di lui. Ma le sue scelte erano ponderate, ragionate, le sue intuizioni sempre originali, le sue idee sempre pronte a confrontarsi con quelle degli altri. I suoi editoriali erano lezioni di giornalismo: chiari, profondi, mai banali. Era un grande giornalista, ma anche un politico: conosceva il partito (prima il Pci, poi quello che venne dopo) e le sue dinamiche interne meglio di altri, maneggiava la politica come pochi sapevano fare, aveva un sacro rispetto per un’attività che oggi è vilipesa da questa ondata populista. E’ stato deputato per due legislature e lo ha fatto con la serietà che metteva in tutte le cose, nonostante gli sia capitato di farlo quando il berlusconismo era tornato trionfante dopo la stagione dell’Ulivo di Romano Prodi.

Se scavo nella memoria ho l’immagine sua di giornalista dell’Unità. Perché Peppino è stato fondamentalmente un giornalista dell’Unità. In quel quotidiano fondato da Antonio Gramsci ha lavorato moltissimi anni della sua vita con il rigore, la passione, la professionalità che hanno guidato schiere di cronisti e che hanno fatto di via dei Taurini una vera scuola di giornalismo. Ha fatto il giornalista dell’Unità come lo abbiamo fatto in tanti: difendendo la nostra autonomia anche a costo di scontrarci con il Partito, quello con la p maiuscola, e coltivando una professionalità seria e schierata, sempre dalla parte dei meno potenti.

Se scavo nella memoria ho l’immagine sua quando è diventato direttore per la prima volta nel 1996, dopo l’esperienza straordinaria di Walter Veltroni che se ne andava per fare il vicepremier di Prodi. Nonostante il peso di quella eredità, ha affrontato con il sorriso e con la leggerezza un compito grande. Si fidava di noi, che eravamo i suoi ragazzi, anche se eravamo solo un po’ più giovani di lui. Ci ha lasciato briglia sciolta, ci ha fatto crescere. In quella prima esperienza ha fatto anche degli errori: nella ricerca spasmodica di un nuovo modello di giornale si è lasciato trasportare in mondi che poco avevano a che fare con il nostro. Ha percorso con eccesso l’idea di un giornale quasi monastico – poche foto, titoli lunghi, molto grigio, argomenti spesso alternativi – per poi finire sugli scogli di quel titolo “Scusaci principessa” con cui l’Unità affrontò la morte di Lady Diana. Si fidava degli altri, in quel caso forse si fidò troppo.

Se scavo nella memoria ho l’immagine sua in una stanzetta della sede di via Due Macelli dopo che era stato fatto fuori dalla direzione per far posto al primo che veniva da Repubblica – si chiamava Mino Fuccillo – e che voleva fare la rivoluzione contro tutti pensando di dover colonizzare un popolo di analfabeti. Peppino stava lì, parlava con tutti, dispensava consigli e mai ha mostrato rancore.

Se passavi verso le sei e mezza di sera non ti dava retta perché c’era “Un posto al sole” e lui non voleva perdere nemmeno una puntata di quella soap opera che era agli esordi: “Aspè, ne parliamo dopo…”.

Non fu, quello, un bel periodo per lui. Certo nemmeno per noi che continuavamo a lavorare per un giornale con la striscia azzurra al posto di quella rossa e che in pochi mesi perse più di diecimila copie e che lentamente si avviava verso la fine.

Se scavo nella memoria ho l’immagine sua di quel 27 luglio 2000. Era diventato direttore per la seconda volta, dopo la breve e non intensa parentesi di Paolo Gambescia, e aveva dovuto subito fare i conti con una crisi che stava corrodendo il giornale. Cercavamo di resistere: riducemmo la foliazione, vivevamo in tensione ogni giorno. Organizzammo assemblee alle quali invitammo dirigenti del partito, sindacalisti, intellettuali, registi che venivano a darci sostegno.

Quel 27 luglio nel teatro della redazione di via Due Macelli – dove oggi c’è la Rinascente, un altro segno dei tempi – c’era Massimo D’Alema. E proprio nel mezzo di quell’assemblea Peppino venne convocato dal liquidatore che gli comunicò la decisione: l’Unità chiude. Quando tornò in teatro aveva il volto scuro come mai l’avevamo visto. Prese D’Alema sotto braccio, con un gesto quasi protettivo, e di corsa su per le scale lo portò nella sua stanza. Rimanemmo in quattro chiusi lì dentro: oltre a loro due, io che ero il vicedirettore e Nuccio Ciconte che era il capo del Comitato di Redazione. Fece di tutto Peppino per scongiurare quella chiusura.

Convinse D’Alema a telefonare a mezzo mondo: a Veltroni che era il segretario dei Ds, al liquidatore e chissà a chi altro ancora che oggi non ricordo più. Ma non ci fu verso. Il giorno dopo uscì l’ultimo numero dell’Unità: era bianca, al centro aveva la fotina del quotidiano del 12 febbraio 1924 e un suo breve editoriale, una lettera d’addio: “Doveva proprio finire così? Lo strappo c’è stato, duro, improvviso, feroce”. E più avanti: “Ma può morire così una parte viva della storia della sinistra?”. A rileggerle oggi quelle parole fanno venire i brividi, perché sono ancora così crude e così attuali dopo che l’Unità ha chiuso altre due volte e oggi non esiste più. Allora, finimmo tutti in cassa integrazione, anche lui che volle condividere la sorte con i suoi giornalisti.

Se scavo nella memoria ho l’immagine sua, seduto nel salotto della sua casa di Prati, che si mette a disposizione di questo sito, che si chiama strisciarossa non a caso. Ci spiegò quel giorno, a me e a Paolo Soldini che eravamo andati a trovarlo, come voleva organizzare i suoi commenti per una rubrica che volle chiamare “Red pepper”. Scrisse con costanza, con arguzia, con intelligenza, con maggior vis polemica rispetto agli anni dell’Unità. Poi decise che era il momento di smetterla. Due anni fa ci mandò il suo ultimo articolo: “Perché non voglio più scrivere di politica” era il titolo. E spiegò: “La politica di oggi è fatta da energumeni. Bisogna scrivere usando il loro steso linguaggio. Non sono capace. Non mi sento superiore a loro ma come disse Satta Flores in un bellissimo film di Ettore Scola (C’eravamo tanto amati): ‘Nocera è inferiore perché ha dato i natali a individui ignoranti e reazionari come voi’ L’Italia politica è come quella Nocera lì”.

Se scavo nella memoria ho l’immagine sua in tanti altri momenti della nostra lunga storia comune. E ogni immagine me lo rimanda allo stesso modo: come uno di noi. Un giornalista dell’Unità, un amico, un compagno.

(di Pietro Spataro da strisciarossa.it)
(foto da Il Riformista)


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