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I mestieri del cinema e Fellini. IL REGISTA

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La figura del regista, termine italiano equivalente dell’inglese film director, prende origine dal latino ‘regere’ nel significato appunto di reggere, stare alle redini, ‘dirigere’. Nasce inizialmente come actors director cioè colui che guida gli attori sul set: per illustrare loro il carattere del personaggio, indicare l’azione e i movimenti di scena, suggerire gli atteggiamenti, i tempi, le espressioni del viso, l’intonazione dei dialoghi e le pause.

Nel cinema pionieristico all’allestimento e al fabbisogno del set sovrintendeva il direttore di produzione, mentre alle esigenze tecniche dalla ripresa era preposto l’operatore alla macchina (camera) che era anche il datore di luci: esperto di esposizione fotografica, di pellicola, di obiettivi, di lampade e riflettori. In seguito assurgerà al ruolo di direttore della fotografia. Aldo Tonti, uno dei grandi operatori della prima leva, non usava l’esposimetro per decidere l’apertura del diaframma, ma guardava la luce direttamente sul palmo della mano, e la sua valutazione era puntualmente confermata dall’ago galvanometrico (oggi LCD) affibbiato agli assistenti.

John Huston, un leone della vecchia guardia di registi americani, quando dirigeva gli attori sul set spesso non si interessava neppure ai loro movimenti. Reclinava la testa sul petto e chiudeva anche gli occhi, tendendo l’orecchio alla recitazione degli interpreti. Fino a quando non era soddisfatto del risultato ripeteva: “One more”, un’altra, un altro ciak, una nuova ripresa. E dava l’O.K. di stampa soltanto quando l’intonazione funzionava a perfezione. In America e in Inghilterra, infatti, gli attori recitano in teatro di posa come se fossero sul palcoscenico, con il vantaggio non secondario di poter ripetere la propria performance fino al risultato ottimale. I dialoghi che lo spettatore segue sullo schermo del cinema, sono quelli originali registrati dal fonico di ‘presa diretta’.

In Italia, ne abbiamo già accennato occupandoci della sonorizzazione, la colonna dialoghi viene quasi sempre integralmente reincisa al doppiaggio, e le voci molto spesso non appartengono agli interpreti di scena ma ai doppiatori.

Per non parlare dei film stranieri che, per comodità e per pigrizia, vengono diffusi invariabilmente in versione italiana; con il risultato che si conosce assai poco la vera voce dei celebri attori di Hollywood, ma in compenso si è favorito lo sviluppo di una scuola di doppiaggio di altissimo livello. Ci sono doppiatori, al limite del virtuosismo, capaci non di rado di migliorare persino la recitazione dei maggiori divi d’oltre oceano. Woody Allen, affidato a quell’autentico funambolo della voce che era Oreste Lionello, ha raddoppiato la sua simpatia grazie al doppiaggio italiano.

Nel nostro cinema del dopoguerra, con l’affermarsi del Neorealismo, la macchina da presa era uscita dai teatri di posa, restati per anni impraticabili, ed era scesa in strada tra la gente comune; spesso gli interpreti avevano volti assai espressivi ma voci e dizioni inadatte. Un bravo doppiatore avrebbe dato a ciascuno di loro la credibilità in post produzione. Su tale presupposto si era perfezionata l’arte del doppiaggio, che aveva finito per favorire una concezione diversa della partitura delle voci. E Fellini, da par suo, colse l’opportunità per trasformarla in un’autentica forma di ulteriore creatività.

Confessa il Maestro riminese:

«Da bambino creavo io stesso i personaggi del mio teatrino. Le marionette erano di cartapesta con la testa di gesso. Avevo circa nove anni quando cominciai a costruirmele e a modellare le testine. Mettevo in scena i personaggi interpretando tutte le parti. Fu allora che mi abituai a rappresentare tutti i protagonisti e a sviluppare, credo, quello stile a cui sono ricorso più tardi in veste di regista per mostrare agli attori come vedevo il personaggio. Ovviamente ero anche l’autore dei testi.»

Il regista occupa gerarchicamente la posizione al vertice della realizzazione cinematografica. E’ la persona interamente responsabile della buona riuscita del film, dal suo concepimento all’ultimo intervento di edizione, cioè l’ordine di stampa della ‘copia campione’ da cui verranno duplicate le pellicole da distribuire nei cinema.

Se dunque all’inizio il regista era un metteur en scène, sulle orme del capocomico teatrale, con l’evolversi del linguaggio cinematografico il suo ruolo acquista progressivamente spazio e importanza diventando non soltanto il responsabile del set, ma di tutte le molteplici esigenze della lavorazione: un professionista in grado di ideare e scrivere autonomamente una trama da trasporre in pellicola e di raccontare una storia visiva applicando rigorosamente le regole della sua grammatica.

Mario Camerini, Mario Soldati, Alessandro Blasetti, e sulla loro scia, nel periodo postbellico, personalità di spiccato talento come Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Pietro Germi, introducono una concezione diversa e più moderna, della rappresentazione cinematografica, in netto contrasto con le commedie brillanti d’egli anni Trenta e Quaranta, il genere cosiddetto dei ‘telefoni bianchi’, di puro intrattenimento e spesso vuoto di contenuto.

Raccontando le macerie morali e materiali del Paese uscito sconfitto dal disastroso conflitto, i nuovi registi davano voce a un mondo sommerso di esclusi, di emarginati, che tra mille difficoltà cercavano di rialzare la testa e di ricostruire la nazione insieme alla propria vita. Sunt lacrimae rerum: storie tristi, di povere esistenze, trame pervase di impegno sociale che servivano a restituire al pubblico un nuovo sentimento di dignità e di fiducia in sé stessi.

Fellini come sceneggiatore e poi assistente di Roberto Rossellini in Roma città aperta e soprattutto in Paisà, scopre attraverso il suo maestro qualcosa che lo affascina e lo sorprende:

A Firenze giravamo con i carri armati americani che ci passavano dietro la schiena, il chiasso, lo sferragliare dei cingoli, la confusione, la polvere, la troupe accampata tra i calcinacci. Roberto non ne era affatto disturbato, metteva l’occhio alla cinepresa e componeva la sequenza con quell’attitudine del vero cineasta a trasformare ogni ostacolo apparente in un elemento a proprio favore.”

Ciò che più lo impressionava era la capacità di Rossellini di cogliere e isolare la sostanza di una scena anche nel contesto più avverso, disastrato e improbabile.

Il giovane riminese impara in fretta la lezione e la adatta alla propria sensibilità, discostandosi dai temi politici imposti dalla scuola neorealistica, ma non dalla novità di linguaggio, sul quale anzi elabora uno stile personale, originalissimo. Le sue storie agiscono in un ambito più privato e senza tempo, sono favole e sogni che trovano una perfetta consonanza nella potenzialità della  “Settima Arte”.  Dirigendo film come Lo sceicco bianco, I Vitelloni, La strada (consacrata con un Premio Oscar) e gli altri capolavori che seguiranno, il giovane regista si impone sulla scena internazionale e nasce con lui l’autore cinematografico, un artista in grado di esprimersi a pari dignità con lo scrittore, il pittore, il musicista, l’architetto. Con Fellini il cinema entra nell’età adulta.

Alla base del lavoro del regista, resta dunque la direzione degli attori. Ma prima ancora c’è il coordinamento dei numerosi apporti tecnici che contribuiscono a costruire la storia cinematografica. Tutti i reparti della produzione di un film fanno capo al regista, dalla scrittura (sceneggiatura) al cast (la scelta degli interpreti), dalla scenografia alle luci, dalla ripresa all’ambientazione, dall’inquadratura ai movimenti di macchina, dagli effetti speciali, alla coreografia, dalla musica, al montaggio; fino al missaggio e al licenziamento dell’opera.

Il regista cinematografico è assimilabile al direttore d’orchestra che armonizzando la sonorità degli strumenti musicali più diversi, ottiene il miracolo del concerto, della sinfonia.

E’ un mestiere complesso, faticoso, che richiede assoluta dedizione, fervida creatività, un’enorme capacità di concentrazione e una riserva inesauribile di risorse fisiche necessarie per poter prendere tempestivamente qualsiasi decisione, tra le mille che costantemente vengono sollevate dal gran numero di collaboratori protesi alla realizzazione.

Se il teatro vuoto può generalmente ingenerare nel cineasta il medesimo sgomento che prova lo scrittore per la pagina bianca o il pittore per la tela immacolata, per Fellini l’atteggiamento risulta del tutto differente:

«Il cinema è un modo divino di raccontare la vita, di far concorrenza al padreterno! Nessun altro mestiere consente di creare un mondo che assomiglia così da vicino a quello che conosci, ma anche agli altri sconosciuti, paralleli, concentrici.

Per me il posto ideale, l’ho già detto tante volte, è il Teatro 5 di Cinecittà, vuoto. Ecco, l’emozione assoluta, da brivido, da estasi, è quella che provo di fronte al teatro vuoto: uno spazio da riempire, un mondo da creare

Al contrario del film maker, che realizza un’opera minimale con i propri (scarsi) mezzi, il regista cinematografico svolge il suo mestiere all’interno di una vera e propria industria, lo showbusiness, sorto intorno alla realizzazione del film come prodotto commerciale da distribuire in un vastissimo circuito di sale (oggi progressivamente integrato dalle grandi piattaforme televisive e dalla rete) e offerto a una imponente massa di pubblico, possibilmente di dimensione planetaria. Su tale scommessa imprenditoriale gli Studios, cioè le major company hollywoodiane, investono ingenti capitali con i quali ricoprire i costi di produzione sempre più vertiginosi, che hanno ormai  superato anche i trecento milioni di dollari per un film; in una corsa sfrenata a stupire e conquistare ogni tipologia di spettatore.  In questa opera di seduzione appaiono in prima linea i pagatissimi attori dello “star system”, che con il loro carisma attraggono il pubblico e, sotto la guida del regista, riescono a spingere il consenso verso successi sempre più globali e clamorosi.

Al centro di questo vortice di denaro, domina pur sempre il regista, a garanzia dell’ottimo risultato dell’impresa non soltanto sotto l’aspetto ‘artistico spettacolare’ ma anche dell’esito economico. Il regista si impegna infatti con la società produttrice a non sforare il budget, rispettando, salvo imprevisti, le settimane di lavorazione previste e i coti concordati.

Per un cineasta di vocazione, il cinema arriva a coincidere con la sua stessa vita. Almeno restringendoci a giganti della statura di Kubrick, Bergman, Kurosawa. E naturalmente di Fellini, il quale scrive:

«Alle origini il cinema era un fenomeno da fiera, uno spettacolo di piazza e io lo sento sempre un po’ così; qualcosa tra la scampagnata tra amici, l’intrattenimento circense, un viaggio verso una meta da esplorare. Un film l’ho sempre sentito come un momento della vita, per me non c’è divisione tra la vita e il lavoro, il lavoro è una forma, un modo di vivere.

Il teatro di posa buio, tutte le luci spente, ha una seduzione su di me che riguarda qualcosa di molto oscuro a me stesso. Metter su una quinta con le mie mani, truccare un attore, vestirlo, stimolare un suo gesto, una sua reazione, sono cose che mi coinvolgono completamente, che assorbono tutte le mie energie».

 

Fuori della grande industria americana, gli ordini di grandezza si ridimensionano alquanto. In Europa, sebbene il trend non si discosti fondamentalmente dal modello vincente anglosassone, le cifre investite sono di gran lunga inferiori, e anche lo stile delle storie cinematografiche riflettono una diversa concezione di partenza. Il cinema si adatta alla natura della nazione in cui agisce, alle tradizioni locali, al gusto del pubblico. E rimane ancora spazio per film a basso costo, low budget (dai cinque ai quindici milioni di euro), in cui le vicende assumono un carattere più intimo o di riflessione, a scapito della spettacolarità ma a volte a vantaggio della poesia (art movie); sebbene anche i corrispettivi incassi paghino pegno al botteghino.

Tuttavia per fortuna in tutto il mondo c’è ancora estro in abbondanza per tante proposte diverse che garantiscono una pluralità di visioni.

In ogni caso al centro dell’avventura espressiva rimane insostituibile la figura del regista che insegue il suo sogno. Per realizzarlo deve però possedere qualità ben precise, una estrema fiducia in sé stesso, un’indole pugnace, una resistenza titanica. Il regista deve ascoltare solo sé stesso, perché ogni collaboratore possiede la sua idea del film (come avviene per ciascuno di noi leggendo un romanzo e attribuendo mentalmente facce, suggestioni, comportamenti), e se tutti avessero voce in capitolo in film non troverebbe mai la via d’uscita. Pertanto l’autore deve difendere ad ogni costo la propria visione, a volte contro tutti, sviluppando, se non ce l’ha già innato, un carattere autoritario e persino vagamente dittatoriale, impositivo. Racconta di sé Fellini:

«Pensavo di non essere tagliato per la regia. Mi mancavano il gusto della sopraffazione tirannica, la coerenza, la pignoleria, la capacità di faticare e tante altre cose, ma soprattutto l’autorità. Tutte doti assenti al mio temperamento. Da bambino ero un tipetto chiuso, solitario, aggredibile, vulnerabilissimo fino allo svenimento. E sono rimasto, checché ne pensi la gente, molto timido. Tutto questo come si poteva combinare con gli stivali, il megafono, l’urlata, le armi tradizionali del cinema? La regia di un film è sempre il comando della ciurma di Cristoforo Colombo che vuol tornare indietro. Tutt’intorno hai le facce degli elettricisti, il loro muto interrogativo: “Dottò, e che volèmo fa tardi pure stasera?” Senza un po’ d’autorità ti spingerebbero affettuosamente fuori del teatro.»

Alla fine, tuttavia, è consigliabile non mitizzare oltremisura questa prodigiosa arte dello schermo, di cui siamo tutti innamorati. Perché, per lasciare ancora l’ultima parola a Fellini che sapeva ricondurre inequivocabilmente le questioni alla loro massima semplicità:

«Il cinema è stato sempre la stessa cosa, un trabiccolo con dietro un operatore che gira la manovella e davanti un clown che si muove a comando».


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