Il giovane scrittore italo-siriano Shady Hamadi, conosciuto e apprezzato per i suoi libri e i suoi articoli sul Medio Oriente e in particolare sulla Siria, è stato fatto bersaglio di una serie di insulti e minacce di morte per un articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” in cui contestava l’ordinanza del governatore Musumeci. Non si tratta della prima volta in cui l’autore, membro dell’associazione Giornalisti amici di Padre Paolo Dall’Oglio, viene preso di mira dagli odiatori seriali. Shady Hamadi da anni è sotto attacco per aver denunciato i crimini del regime siriano e dei gruppi terroristici che stanno insanguinando la Siria. Shady ha sempre reagito continuando a scrivere, a testimoniare in dibattiti pubblici, anche nei momenti più dolorosi per un autore di origine siriana che ha visto lentamente morire il suo popolo e la sua terra. Il suo è un pensiero raffinato, laico, costruito con anni di studio e lavoro, con una conoscenza diretta delle due sponde del Mediterraneo. Il punto di vista di Shady Hamadi, a cavallo tra due mondi, arricchisce il dibattito pubblico e il panorama letterario italiano proprio perché, come conoscitore del mondo arabo e dell’Italia, riesce a operare quell’operazione di mediazione che è indispensabile anche nel lavoro giornalistico. La voce di Shady, come tutte le altre voci, va difesa.
Minacce di morte e insulti non sono forme di libertà d’espressione. Dovrebbe essere un concetto scontato, ma non lo è e va ribadito continuamente, soprattutto per non trasmettere alle nuove generazioni, ai cosiddetti nativi digitali che usano i social media per molte ore al giorno, messaggi sbagliati. Ciò che si scrive online ha un peso e bisogna assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Dissentire e contestare quanto ha affermato qualcuno è costruttivo, fa parte dell’esercizio della dialettica democratica, mentre dare vita a un linciaggio mediatico, è molto grave. La persona che si trova bersagliata subisce conseguenze pesanti. Trovare la propria foto e il proprio nome su siti che diffondono odio, leggere storielle costruite ad arte per alimentare l’odio ed essere screditati, veder sminuito il lavoro di anni non è un qualcosa a cui si risponde facendo spallucce. È qualcosa che fa male, che umilia, che ferisce, che mette a dura prova e che per questo va contrastato per le vie legali. Sempre più scrittori, giornalisti, e giornalisti freelance si occupano oggi di mafia, di organizzazioni terroristiche, di regimi dittatoriali e diventano per questo bersaglio di attacchi scellerati. Non si tratta di critiche al loro lavoro, che invece sono legittime e utili, ma di attacchi alla loro persona, che nel contesto social assumono proporzioni incontenibili.
Esprimere vicinanza e solidarietà a chi ha subito un’aggressione verbale o fisica, un’operazione diffamatoria, o una minaccia è un comportamento spontaneo, e per chi esercita la professione giornalistica è anche un preciso dovere, sancito anche dall’art.2 del Testo unico dei doveri del giornalista. Per chi ha subito diffamazione e minacce la solidarietà gratuita di colleghi e lettori diventa importante, imprescindibile per trovare la forza di non arrendersi, di reagire, di denunciare e di andare avanti, con la stessa passione e determinazione di sempre. Anzi, spesso dopo certe cadute ci si rialza con maggiore forza, e questa forza deriva proprio dalla coscienza di aver fatto bene il proprio lavoro, di aver dato un punto di vista alternativo, dalla consapevolezza di aver illuminato le periferie dimenticate e di aver squarciato il velo su questioni importanti che qualcuno vorrebbe silenziare, o lasciare appannaggio di un’unica narrazione.