Quarant’anni non bastano per dimenticare ottantacinque vittime. Bologna, 2 agosto, ore 10.25. E’ la peggior strage della storia recente d’Europa, una valigia carica di esplosivo dove si incrociano le trame neofasciste, piduiste e di pezzi dello stato. Una convergenza che emergerà lentamente, durante le inchieste partite poche ore dopo lo scoppio della bomba. Oggi la verità giudiziaria e storica è stata raggiunta sulla matrice neofascista e sulla responsabilità di una parte degli esecutori, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, tutti esponenti dei Nar. Un quarto componente del gruppo, Gilberto Cavallini, è stato condannato in primo grado lo scorso gennaio, mentre da circa un anno la Procura generale ha avviato una nuova indagine sui mandanti, su impulso dei legali delle vittime della strage. Per ora è stato chiesto il rinvio a giudizio di un quinto presunto esecutore, Paolo Bellini, di Domenico Catracchia, amministratore degli immobili di Via Gradoli a Roma, dove furono scoperti due covi dei Nar, dell’ex generale del Sisde Quintino Spella e dell’ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel. I magistrati, nella richiesta di processo, hanno inserito anche i nomi di Licio Gelli e Umberto Ortolani, come finanziatori e mandanti, e di Mario Tedeschi (ex direttore del Borghese, esponente del Msi) e Federico Umberto D’Amato (già a capo dell’Ufficio Affari riservati del Ministero dell’Interno) come depistatori.
La colpa imperdonabile
Quel 1980 sembra lontano anni luce. Governo democristiano, un’Italia ancora stordita dal caso Moro e dalle quotidiane morti per attentati terroristici. A giugno i Nar avevano ucciso il magistrato Mario Amato, uno dei pochi ad aver intuito fino in fondo quanto profondo fosse il male dell’eversione nera, quanto intricate e indicibili fossero le connessioni con i poteri occulti. La lista dei piduisti non era ancora nota e a capo dei servizi segreti militari, il Sismi, c’erano gli uomini di Licio Gelli. L’ex capo dell’ufficio affari riservati, Federico Umberto Amato, era un punto di riferimento indiscusso dell’intelligence italiana e un amico fedele del maestro venerabile. Giulio Andreotti era ancora il Divo, indiscusso manovratore. Sembra passato un secolo. Eppure ancora oggi quel vortice del peggior potere della prima repubblica ancora divide. Gli eredi del neofascismo che ruotava attorno al Msi, incrociandosi con le sigle più cupe della storia italiana, come Ordine nuovo, si preparano a celebrare un 2 agosto «alternativo», con lo slogan «Nessuno di noi era a Bologna». La strage, quarantanni dopo, ancora pesa, è una colpa imperdonabile. Ed ecco apparire piste di comodo, che puntano ad altro, per cercare – maldestramente – di allontanare quell’ombra. Una strage fascista ordinata dalla P2. Una puzza di stantio, di vecchie caserme anni ‘50, di doppi petti impresentabili, di golpisti da operetta, ma tanto cari alla destra repubblicana atlantista.
Il testimone inglese e il piano di fuga prima della strage
Report lo scorso aprile ha ricostruito un episodio cruciale di quel 1980. Leicester, Inghilterra. Ray Hill, esponente di una certa importanza del neofascismo inglese, è appena tornato dal Sudafrica, dopo 10 anni di migrazione. Riceve una telefonata da un italiano, Max Bollo, un neonazista a capo di un gruppo di estremisti chiamato «Wit Kommando», il commando bianco. «Ti chiamerà un camerata», spiega Bollo. E’ aprile, mancano quattro mesi alla strage di Bologna. Enrico Maselli, neofascista convinto ancora oggi (al collo porta l’ascia bipenne di Ordine nuovo), contatta Hill: «Ci sarà qualcosa di clamoroso, ci serve una mano per far fuggire alcune persone dall’Italia». Ray racconta per la prima volta ad una televisione italiana quell’episodio di quarant’anni fa, che è rimasto segnato nella sua memoria. Tornato in Inghilterra aveva deciso di passare segretamente le informazioni sul mondo neofascista alla rivista Searchlight e alla polizia inglese. Non sopportava più quel razzismo quasi tribale, cruento. Decide, dunque, di assecondare Maselli. Lo incontra e poi lo mette in contatto con un esponente della Lega di San Giorgio, organizzazione dell’elite neofascista inglese: «Quando scoppia la bomba capisco il perché di quella richiesta – ha raccontato a Report – dicevano L’Italia è un paese troppo corrotto e va distrutto».
Questo incontro è un fatto accertato. Enrico Maselli, intervistato da Report, lo ha confermato, anche se ha negato di aver chiesto un aiuto per far fuggire i neofascisti italiani. Fatto sta che in quei mesi vi fu un vero e proprio esodo di latitanti: oltre ai più noti Roberto Fiore, cofondatore di Terza Posizione, e Massimo Morsello, Nar, sono tantissimi i neofascisti che fuggirono in Gran Bretagna. Nessuno di loro è mai stato condannato per la strage di Bologna, è bene specificare. Ma se il racconto di Hill fosse confermato fino in fondo, è evidente che nell’area del neofascismo italiano c’era la chiara percezione di un evento clamoroso in arrivo.
I soldi di Gelli
La strage di Bologna non arriva come un fulmine a ciel sereno. Ci sono due movimenti che si intersecano nel 1980. Da una parte il mondo neofascista era una galassia magmatica che ribolliva, si addensava e si riorganizzava, dopo lo scioglimento delle due principali organizzazioni, Ordine nuovo e Avanguardia nazionale. I vertici erano da anni latitanti in America Latina, dove si era riorganizzata una struttura solida, grazie ai stretti rapporti con le dittature militari. Clemente Graziani e Elio Massagrande, a capo di ON, avevano stretti rapporti con Stroessner in Paraguay (ancora oggi la famiglia Massagrande possiede migliaia di ettari di terreni nella zona del Chaco), mentre Stefano della Chiaie, fondatore di AN, aveva il ruolo ufficiale di consulente del dittatore boliviano Mesa, insieme al criminale nazista Klaus Barbie, il boia di Lione. In Italia i colonnelli dei due movimenti cercavano di rimettere in piedi l’area neofascista, seguendo il pensiero del grande vecchio dello stragismo, Franco Freda. L’editoria della destra eversiva dalla fine degli anni ‘70 mostra una sterzata estremista decisa, puntando al concetto di «Disintegrazione del sistema», titolo del pamphlet chiave di Freda, scritto nell’anno della strage di piazza Fontana.
Intanto il potere della P2 cresceva, infiltrando tutti i gangli vitali dello stato, a partire dall’esercito, dalle forze di polizia per arrivare ai vertici dei servizi segreti. Una struttura chiaramente atlantista, pronta a seguire ed attuare le visioni peggiori della destra Usa. Con un nemico dichiarato, il partito comunista, Enrico Berlinguer, l’uomo più odiato da Licio Gelli.
Questi due mondi in quel 1980 si incrociano e si alleano.
Il punto di unione è molto prosaico. Un giro di milioni di dollari che, secondo la nuova inchiesta della Procura generale di Bologna, parte da Gelli ed arriva ai neofascisti. La traccia dei finanziamenti è stata ricostruita grazie a un documento, trovato addosso a Licio Gelli al momento del suo arresto a Ginevra nel 1981. Il foglio riporta sul frontespizio la scritta “Bologna 525779 –X.S.” ed elenca nomi, date e importi di una lunga serie di transazioni. Per anni, chi ha condotto le indagini ha omesso particolari fondamentali del documento sequestrato a Gelli, fino a quando, nel 2018, Procura generale e Guardia di finanza di Bologna sono ripartiti da zero. Hanno seguito le tracce di quei soldi, decrittando i nomi cifrati e ricostruendo il giro di quasi 15 milioni di dollari che Gelli ha iniziato a movimentare su conti offshore e a distribuire in contanti pochi giorni prima della strage di Bologna. La figura chiave è quella di Marco Ceruti: imprenditore fiorentino, proprietario di ristoranti lusso, usato da Gelli per le sue operazioni finanziarie opache in Svizzera. È a lui che il Venerabile versa 5 milioni di dollari. Di cui 4 sui conti “Bukada” e “Tortuga” e 1 milione, scrive Gelli in un appunto, “consegnato in contanti dal 20-7-80 al 30-7-80”.
Stando a quanto rivelato lo scorso aprile in esclusiva a Report da Carlo Calvi, figlio dell’ex presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, una parte dei soldi sarebbe poi passata dalle mani di Ceruti a una serie di antiquari italiani attivi a Londra. “Il ruolo degli antiquari italiani a Londra era fondamentale per Gelli – spiega Carlo Calvi –, i soldi che gli antiquari ricevevano dalla P2 sono serviti a finanziare e sostenere la latitanza dei neofascisti fuggiti a Londra subito dopo la strage di Bologna”. Gli stessi latitanti che godranno per oltre trent’anni della protezione del governo britannico.
La bomba di Bologna, come tutte le stragi della strategia della tensione, ha richiesto una lunga preparazione prima e una accurata copertura dopo. Con piani di fuga, depistaggi e soldi per garantire le giuste coperture. Rimane una domanda per ora senza risposta: chi diede quei soldi a Gelli, arrivati in Svizzera attraverso i conti del Banco Ambrosiano in Uruguay? Forse c’era qualcuno che lo sapeva, Roberto Calvi. Quel segreto lo ha portato con se sotto il Blackfriars Bridge, il ponte di Londra dove venne ucciso.