Da 2553 giorni, dal suo rapimento a Raqqa il 29 luglio del 2013, non si hanno più notizie di padre Paolo dall’Oglio, fondatore della comunità inter-religiosa di Deir Mar Musa al-Habashio in Siria.
Sette anni senza risposte, tra ricostruzioni inattendibili, falsità e avvistamenti mai confermati, che hanno favorito il calare dell’oblio sul suo destino.
È per questo che oggi, insieme a Riccardo Cristiano, al presidente della Federazione nazionale della stampa, Beppe Giulietti, e ai suoi familiari, rilanciamo l’appello a rompere il silenzio sul suo destino.
Ho incontrato la prima volta padre Paolo nel 2007, in Siria, mentre ero al seguito di una missione diplomatica a Damasco. Ma è stato nel 2012, quando a margine di un’audizione in Commissione Diritti Umani in Senato ho avuto modo di intervistarlo per la prima volta e trascorrere insieme diverse ore, che l’ho conosciuto davvero.
La cosa che più mi colpì fu il suo grande amore per il popolo siriano e per il monastero di San Mosè l’Abissino, nel deserto a nord della capitale siriana. La sua passione nel sostenere come la fede, nelle sue diversità, potesse unire piuttosto che dividere, cambiò radicalmente il mio approccio con l’Islam.
In quell’occasione espresse con dolore quanto lo avesse deluso il presidente Bashar al Assad, che durante il primo decennio al potere era visto da molti come colui che avrebbe potuto trasformare il paese in uno Stato moderno e democratico, emancipandolo da una situazione di arretratezza che lo caratterizzava sul piano culturale, istituzionale e dei diritti, per orientarlo verso una maturazione sociale e civile adeguata.
Questo era il desiderio e l’auspicio su cui in tanti avevano fatto affidamento ma, come sosteneva Paolo, per concretizzarli sarebbe stato necessario “prosciugare la palude delle mafie criminali, dei commerci di armi, dello strapotere dei servizi segreti così come della strumentalizzazione degli estremismi musulmani teleguidati per obiettivi di potere”.
Secondo il gesuita, non si poteva immaginare una possibile pacificazione negoziale mettendo sullo stesso piano il regime e la resistenza siriana, il boia e il torturato.
“Compiremmo un errore. Non è possibile farlo anche moralmente” fu uno dei passaggi più forti e sentiti dell’audizione di padre Paolo consapevole che all’interno dei movimenti di opposizione ad Assad fossero presenti posizioni integraliste.
Credeva fermamente che la missione della comunità internazionale non fosse solo quella di pacificare la Siria, giungendo ad una qualche forma di armistizio, ma che si arrivasse a tale risultato attraverso un processo di maturazione democratica.
Era questa, allora, la grande richiesta dei siriani. E padre Paolo, fautore del dialogo, la portava avanti convintamente.
Oggi, sette anni dopo la sua scomparsa, manca la sua voce potente, il suo esempio, il suo essere costruttore di ponti.
Manca a me che non riesco a dirgli addio…
Su ciò che gli è accaduto la penso come Riccardo Cristiano, a cui ho rivolto quelle domande a cui nessuno sa o vuole rispondere.
Perché Paolo doveva ‘sparire’? “Perché il suo messaggio faceva paura. Paolo, e so benissimo quello che dico, ha portato il Concilio Vaticano II in quelle terre. E tanti hanno capito che la teologia del buon vicinato poteva ricreare il Levante, la terra del vivere insieme, sconfiggendo identitarismi e suprematismi. E’ cosí. I suoi nemici lo temevano e forse lo temono così tanto da non aver potuto neanche rivendicare il sequestro. Cercavano un riscatto? Forse è stato ceduto? Tutto è possibile ma sicuro è solo un fatto: non hanno osato neanche rivendicare l’azione, per loro doveva sparire ma senza che qualcuno potesse dire chi lo aveva fatto sparire” è la convinzione di Riccardo che condivido.
La potenza del suo messaggio lo ha esposto troppo? Anche su questo, l’amico fraterno di Paolo è determinato. No, non eta troppo forte il suo, era la debolezza degli altri messaggi ad esporlo.
E questo porta a chiedersi se il nostro Paese abbia svolto indagini adeguate.
“Noi vogliamo sapere la verità, tutto qui. Ma per saperla occorre parlare con chi la sa. E’ stata chiesta la rogatoria con il leader dell’Isis che si trovava nel loro quartier generale di Raqqa quando vi si recò Paolo? E con il capo delle corti islamiche dell’Isis che sarebbe in prigione in Turchia? Vogliamo cercare nello fosse comuni di Raqqa?” è l’esortazione finale di Riccardo Cristiano che alla domanda su quali speranze ci siano che padre Paolo possa un giorno tornare, lascia a tutti noi questa riflessione: “Un grande intellettuale siriano amico di Paolo, Yassine al Haj Saleh, ha detto che ciò che resta in vita dipende dai vivi. Io credo abbia ragione. Paolo potremmo vederlo ogni giorno vivendo quello che ha fatto nell’oggi e cercando la verità! Il resto dipende da questo, per quanto può stare a noi”.
E’ proprio così… Padre Paolo, e parlo per esperienza personale, ci ha insegnato ad amare la Siria e a comprendere che a tutti è dato di vivere esperienze straordinarie, ma solo alcuni sono in grado di farlo con piena consapevolezza costruendo ponti per superare i muri.
Manchi abuna Paolo.