Fu un’estate maledetta, quella del 1970, per Reggio Calabria e per l’intero Paese. Un Paese ignaro, interessato ad altro, ancora colpito dalla meraviglia della “notte delle notti”, quando l’Italia aveva battuto la Germania Ovest 4 a 3 e, per la prima volta dopo tanti anni, ci eravamo sentiti Nazione, popolo, comunità. Ma quell’estate, nella punta estrema d’Italia, accadde che venne scelto come capoluogo della Calabria Catanzaro, e i reggini insorsero e alle elezioni del ’72 il MSI, il partito che più di tutti, con Ciccio Franco, aveva soffiato sul fuoco e cavalcato la protesta, ottenero un risultato incredibile.
Coprifuoco, barricate, roghi, morti: un clima da guerra civile ad alta intensità, nel contesto straziante di un lembo d’Italia di cui si parla sempre troppo poco, una regione che fa notizia solo quando vi accadono fatti luttuosi, solo quando c’è da parlarne male, solo quando è l’incubatrice di altro dolore, di altra sofferenza, di quella barbarie chiamata ‘ndrangheta che la sta, giorno dopo giorno, soffocando.
Reggio Calabria fu uno snodo cruciale negli Anni di Piombo, il crocevia del perverso intreccio fra estrema destra, servizi collusi e trame eversive, al punto che qualche commentatore e qualche studioso malevolo ha sollevato persino l’ipotesi che la scelta di Catanzaro non sia stata casuale; al contrario, sarebbe servita a creare il clima necessario per avere una riserva di voti e di consensi neri in grado di attuare la strategia di destabilizzazione del Paese. Sono solo ipotesi, ribadiamo, non c’è nessuna certezza; fatto sta che mezzo secolo dopo la solitudine di Reggio è conclamata, così come la sua fatica ad andare avanti, il suo senso di sconfitta, di rassegnazione, di privazione di ciò che le sarebbe spettato di diritto.
I Moti di Reggio, al grido di “Boia chi molla!”, la sinistra beffata e inerte, l’incapacità delle forze democratiche e progressiste di reagire, se non due anni dopo, il 22 ottobre del ’72, con la grande manifestazione operaia che sfidò le bombe disseminate lungo tutto il percorso e si contrappose, temiamo troppo tardi, allo scempio di una città assediata dai neri e di fatto egemonizzata dalla loro abilità nel farsi interpreti di un malessere popolare diffuso: sono i tasselli di un mosaico più ampio che non è stato ancora del tutto composto, essendovi troppi punti oscuri nella vicenda complessiva di una Nazione mai davvero libera e in grado di autodeterminarsi.
Reggio Calabria costituì la miccia di un decennio esplosivo, fu l’innesco di anni di sangue e di orrore che avrebbero sfregiato per sempre il bel disegno resistenziale e costituzionale dell’immediato dopoguerra, consegnandoci una realtà devastata e priva di valori, fiaccata da troppi non detti, da troppe verità negate, da un’ingiustizia palese e il cui puzzo ha finito con l’indurre molti alla rassegnazione.
Anche per questo, a cinquant’anni di distanza, è doveroso far luce su quei fatti, contrastare i minimizzatori di professione e opporsi ai cultori dell’oblio, a chi consiglia di lasciar perdere, a chi la considera, al massimo, una questione locale. Reggio Calabria, al contrario, è stato uno snodo decisivo nella storia del nostro Paese nonché il punto di svolta, al pari di piazza Fontana, che ci ha condotto dagli anni della spensieratezza a quelli dell’orrore.
Fra il ’69 e il ’70 sono state scritte alcune fra le pagine più importanti della storia d’Italia. È arrivato il momento di far luce su qualche mistero.
P.S. Dedico quest’articolo alla splendida visita del presidente Mattarella a Trieste, a un secolo dal rogo che distrusse il Narodni Dom, la Casa del Popolo degli sloveni, rivelando il vero volto del fascismo. Non era mai accaduto che i presidenti italiano e sloveno si prendessero per mano davanti alla foiba di Basovizza e commemorassero insieme le vittime dell’una e dell’altra parte. Non sarà facile trovare un successore all’altezza di un personaggio come Mattarella.
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