Tra i reparti che concorrono all’assetto produttivo e artistico di una lavorazione cinematografica, i costumi aspirano meritatamente al primo posto per fascino e fantasia. Provate a organizzare ovunque vi capiti una mostra di costumi cinematografici e avrete la fila di spettatori alla porta. Perché nulla esercita più richiamo degli abiti che indossano gli attori e le attrici. In particolare il gentil sesso ne rimane incantato, per loro si prolunga il sogno di bambine che giocavano alle signore fantasticando sulle mise delle loro madri e rispettive amiche, o delle ragazze in fiore che correvano a incontrare i fidanzati. I costumi hanno inoltre il pregio che si possono guardare da vicino, si indagano con gli occhi prima che con le mani, quando è possibile toccarli, si valutano le stoffe, si apprezzano i tagli; sono i pochi reperti tattili di quel mondo evanescente che vive soltanto sullo schermo, dove tutto è terribilmente vero e fittizio, emozionante e inafferrabile, concreto e sfuggente come la sostanza dei sogni.
In presenza del costume cinematografico il noto adagio si capovolge, è proprio l’abito che fa il monaco. L’attore per gran parte è ciò che indossa, il suo personaggio assume significato al primo apparire grazie ai panni che il costumista gli cuce sul corpo: dalle scarpe al cappello al fazzoletto alla cravatta, ogni capo che avvolge la sua persona è deciso dal costumista. E viene vestito da cima a fondo, sia che reciti in un film storico che contemporaneo. Il ruolo del costumista consiste nell’interpretare le intenzioni del regista suggerendo le soluzioni più calzanti alla fantasia di entrambi.
Chiunque appare in scena porta il marchio del costumista. E ciò dal primo istante in cui l’attore viene scelto; anzi la frase magica, risolutiva, che l’aspirante al ruolo attende con trepidazione è quella rivolta dal regista agli aiuti al termine del provino: “Accompagnatelo alla prova costume”. E’ fatta! L’attore ha ottenuto la parte e, per prima cosa, le sarte dovranno prendergli le misure, mentre il costumista lo scruta per capire quali siano i suoi punti di forza e quali i difetti.
Il reparto dei costumi è il più vagheggiato perché è spumeggiante, un laboratorio di sartoria in eterno fervore, a capo del quale domina la figura di uno stilista eterodosso, esperto di moda corrente ma allo stesso tempo monarca di un regno riconosciuto soltanto dal mondo della celluloide, in cui convivono tutte le epoche della storia, ma anche della non storia, luoghi e tempi immaginari, fantasy, fantascienza, iperuranio.
L’aspetto dell’atelier è quello facilmente immaginabile, con i modelli di carta sui tavoli, i rotoli di stoffa, il trepestio delle macchine da cucire, i manichini, le grandi forbici da taglio, i cuscinetti degli spilli, i gessi ovali e piatti, gli specchi a tre ante, i drappi, i rocchetti, i nastri, i bottoni, accatastati insieme lungo le vaste tavole sostenute dai cavalletti. Il clima è elettrizzante, pervaso da quell’eccitazione operosa mista all’allegria e al cicaleccio, che è tipica di un consesso di donne, garrule e complici in tutto, nello scherzo, nel riso, nel commento. Attori e attrici si beano distendendo i nervi, felici e coccolati. Fellini dedica a questo sentimento coinvolgente di convegno muliebre la sequenza dell’harem in 8 ½, ma anche la sessione dei provini per scegliere l’opulenta protagonista di America di Kafka nel film Intervista.
Il capannone dei costumi rifulge di questo umore contagioso, ostentando a tratti il tono e l’impeccabilità della casa di moda; la leggerezza non è mai disgiunta dall’esattezza minuziosa, il lavoro segue un ritmo spesso convulso, ma pur nel procedere concitato della ‘catena di montaggio’, ogni dettaglio dei capi di vestiario risulta esattamente calcolato perché non ci siano imprevisti o perdite di tempo al momento di mandare in scena una marea di persone.
Pensate a quanti attori, quanti generici e comparse siano coinvolti nella lavorazione di un film medio. E moltiplicatelo per cento quando la storia preveda ambienti affollati, o per altri cento quando si parla di scene di massa di un Kolossal, in cui anche mille figurazioni debbono agire sul set contemporaneamente. L’atelier si infuoca, diventa una fabbrica di vestiti. Anche quando i costumi non vengono confezionati in loco, perché ci si appoggia necessariamente ai depositi delle sartorie specializzate – teatrali o cinematografiche, Tirelli, Farani, Annamode – ogni pezzo va registrato, verificato, aggiustato, provato, adattato, assegnato definitivamente a un nome e a una taglia. Non più di un attimo è concesso per destinarlo a quell’unica persona a cui è abbinato. Insomma si tratta di un apparato gigantesco costituito appositamente per il film: raggiunto lo scopo, cessa di esistere. Esattamente come la scenografia, che viene distrutta non appena il regista e il direttore della fotografia, visionati i ‘giornalieri’ per essere certi che nessuna scena abbia bisogno di essere rigirata, passano ad altro ambiente.
Alcune volte i due reparti sono in mano a un unico titolare, il costumista-scenografo; una figura che potrebbe vagamente essere assimilata all’art-director, in grado di conferire al film una omogenea suggestione visiva, e nei casi migliori un unico stile. Ciò non avviene quasi mai nei grandi Studios di Hollywood, dove i compiti sono sempre ben separati; mentre invece diventa prassi più frequente nel cinema d’autore europeo e quasi una consuetudine per Federico Fellini. Il regista-autore, unico vero responsabile di ogni aspetto del film, è una sua invenzione, raccontata magistralmente attraverso i pregi e i difetti di Guido, il protagonista di 8 ½ . Una figura da lui impersonata fin dagli esordi, con I vitelloni, La strada, Le notti di Cabiria e poi platealmente ne La dolce vita. Lo scenografo-costumista era il suo braccio secolare, il brillante esecutore al suo fianco dei bozzetti che l’artista disegnava a getto continuo e distribuiva con note e raccomandazioni.
Federico aveva avuto la fortuna di incontrare sulla sua strada un genere raro di collaboratore che sembrava essere venuto al mondo per lui; primo tra tutti Nino Rota, capace di interpretare nelle colonne musicali l’inesprimibile, l’anima occulta del film. Ma quel medesimo tocco magico e irreale, apparteneva anche ai direttori della fotografia, di cui parleremo a tempo debito, a iniziare da Otello Martelli che si poneva in quell’ideale fungibilità in cui gli occhi dell’uno corrispondevano alle luci dell’altro. Sbalorditivo. La fotografia della Dolce Vita sembra colata nell’argento, sfarzosa e allo stesso tempo intima, come solo un pittore del bianco e nero avrebbe saputo concepire.
Fin da Le notti di Cabiria Fellini per la scenografia e i costumi aveva cooptato Pietro Gherardi, architetto, cresciuto alla scuola di Gino Carlo Sensani. Gherardi accompagnerà il regista nell’arco degli anni Sessanta, per la trilogia più famosa e fortunata, La dolce vita, 8 ½ , Giulietta degli Spiriti, oltre l’episodio di Boccaccio 70, fornendo all’artista riminese una gamma stupefacente di soluzioni figurative che saranno premiate anche con l’Oscar. E lo affiancò nel passaggio al colore in cui il regista giunse ad esprimere a pieno la sua inclinazione all’ «affresco mobile» che caratterizza la fase più matura della sua creatività.
Stiamo parlando degli anni Settanta quando a fianco del regista comparirà Danilo Donati, per una collaborazione ventennale quasi leggendaria. Donati, che aveva studiato affresco e mosaico all’Accademia di Belle Arti di Firenze e aveva avuto per maestro Ottone Rosai, era un pittore rinnegato (si può dire?) che riteneva di aver tradito la sua vera missione corrompendosi alle muse del teatro, con Visconti, e del Cinema con Fellini, ma anche con Pasolini, Zeffirelli, Bolognini. Dopo il periodo di assestamento seguito alla mancata realizzazione di un’opera fatale, Il viaggio di G. Mastorna, Federico si immerse nell’avventura di un film “di fantascienza nel passato”, basandosi sui pochi frammenti del Satyricon di Petronio Arbitro, autore neroniano del I secolo d. C. L’antico mondo latino era stato raccontato fino a quel momento tramite i cosiddetti peplos movie, rinominati dalle maestranze di Cinecittà “i sandaloni”, con i centurioni al dopobarba o persino con l’orologio al polso (Scipione l’Africano). Federico stravolse ogni convenzione esistente, ricorse persino a medium e sensitivi per entrare in contatto con i trapassati delle tombe sull’Appia Antica, e reinventò completamente il vagabondare dei due giovani protagonisti, Encolpio e Ascilto, quasi fosse un road movie nei luoghi e negli usi misteriosi dell’Impero, trasfigurando ogni sequenza in visionarietà onirica. Danilo, fu precettato per scene e costumi e coniugò la sua fantasia con quella dell’autore con risultati strabilianti; davvero un “inventore di visioni” come lo battezzai nel catalogo della mostra che gli fu dedicata a Villa Manin di Passariano di Codroipo nel 2014.
Si era formato in quel film irripetibile un sodalizio che in seguito, spaziando in ogni epoca, portò sullo schermo capolavori come Roma, Amarcord, Casanova, Ginger e Fred, Intervista, accolti da una pioggia di premi, e di nuovo dagli Oscar.
Questi capolavori furono realizzati per la massima parte nei teatri di posa di Cinecittà. Nel caso di Amarcord, anche gli spazi esterni degli stabilimenti (backlot) furono occupati per ricostruire il centro storico di Rimini, il ‘borgo’ in cui Fellini ripercorre come un cantastorie le memorie ‘inventate’ dell’infanzia. Per Casanova ricostruì Venezia, i canali, il carnevale, la laguna, i Piombi, ma anche Parigi, Londra, Dresda, Berna, il Castello di Wurttemberg, e nel finale la laguna ghiacciata della Serenissima, con quel colpo di teatro indimenticabile destinato a rimanere negli annali del cinema.
I costumi di Danilo spaziarono dall’Italia degli anni Trenta e Quaranta, in pieno regime fascista – chi non ricorda le mise fascianti della Gradisca? – alle fogge settecentesche dei Mémoires, agli abitini borghesi di Giulietta Masina, assediata dal caravanserraglio di una televisione commerciale già ostaggio del suo peggior gusto. L’artista di Suzzara era un vulcano di creatività, dotato di una formidabile cultura pittorica, intimo amico di Pierino Tosi, altro portento del nostro cinema chiamato sul set di Federico per preziosi interventi in punta di penna. Tosi aveva firmato Toby Dammit e aveva disegnato tutte le facce ‘liberty’ dei personaggi di E la nave va.
Donati nel suo atelier era una furia, instancabile e principesco. Poteva partire per Londra dalla sera alla mattina pur di recuperare una certa stoffa introvabile in Italia, o sparire per giorni in Puglia a fare incetta di ceramiche, terrecotte, suppellettili. Lo si poteva vedere rimestare personalmente nei calderoni per le tinture, fumiganti sul fuoco, oppure ripulire i tavoli delle sarte, all’ora di pausa, per stendere la sfoglia e preparare le tagliatelle al ragù più strepitose che si siano mai assaggiate. Non era raro che rimanesse persino a dormire nella sua attrezzeria, per non separarsi da quell’impalpabile fluido che lo teneva avvinto ai suoi costumi, alle sue fantasie. I libri d’arte rigurgitavano dagli scaffali intorno al divano, simili a penati protettivi, ad anime inquiete: Hogarth, Watthau, Guardi, Canaletto, Monsù Desiderio.
Danilo approntava sorprese da lasciare senza fiato; quando si trattò di arricchire il décor della cena di Trimalcione con un fastoso ritratto a mosaico del ricco liberto, non essendoci tempo per chiamare un mosaicista, fece arrivare a Cinecittà un camion di caramelle Charmes e con quelle compose la pittura musiva che si può ammirare nella sequenza. Nel film Roma, per gli affreschi della Domus Romana che si dissolvono a contatto dell’aria, adottò una trovata dello scenotecnico Italo Tomassi, di cui ancora ci si interroga su quale fosse la formula segreta.
I film di Fellini nascevano anche in quella specie di antro degli elfi, in quell’immenso magazzino da mille e una notte, dove lavorando su vaste tavolate, Bruno Lenzi e altri assistenti guidati da Danilo creavano i gioielli: erano mucchi di granaglie, di pasta corta o pastina da brodo, di ogni foggia, immersi nella porporina d’oro e ricomposti con la colla in diademi, orecchini, medaglioni, collier, pezzi unici di alta gioielleria.
Quando fu chiamata precipitosamente da Parigi Magali Noël, già attrice di Fellini ne La dolce vita e nel Satyricon, per interpretare la Gradisca in Amarcord, l’attrice viaggiando in aereo di notte era giunta all’alba a Cinecittà. Danilo aveva già pronto per lei il tailleur rosso attillato, con il basco in testa; le cadeva a pennello. Fu portata di corsa al trucco e poi direttamente in teatro per il provino. Federico girò qualche scenetta improvvisata, provò due o tre battute, la fece muovere, ancheggiare, le indicò qualche vezzo seducente, come mordere con gli incisivi la collana di perle. Ne scrutò il languore mentre pronunciava: “Principe… gradisca…”. Ma continuava a non dir niente. La cinepresa ronzava, la troupe era ammutolita, nessuno osava fiatare. Federico tenendo tutti in sospeso, si era avvicinato a una lavagna di scena e con il gesso aveva scritto: “E’ ARRIVATA LA GRADISCA!”. Che pianti dell’attrice, e di tutti i presenti, che ridere, che applausi forsennati, interminabili. Amarcord nasceva forse in quell’istante.
Quando anche l’alleanza con Donati si concluse, il reparto scene fu preso in consegna da Dante Ferretti (oggi pluripremiato a Hollywood accanto a Martin Scorsese). Era allievo di Luigi Scaccianoce fin da neo diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma, e quasi subito assistente di Danilo Donati nella poderosa produzione del Satyricon. Quando si dice che il cinema è l’ultimo erede della bottega d’arte creata dai grandi Maestri del Rinascimento. Lo spirito è il medesimo.
Ha inizio per Fellini, negli anni Ottanta, l’ultimo e non meno esaltante capitolo della sua carriera.
Per i costumi, dopo un’esperienza ardimentosa con Gabriella Pescucci per La città delle donne, il reparto si ricompone con Maurizio Millenotti, che sembrava il più idoneo a raccogliere il testimone da Donati, persino per affinità geografica, essendo originario di Reggiolo. Per E la nave va e poi per La voce della Luna, ultimo film del regista, sarà lui a firmare i costumi vestendo a puntino una vera folla di attori e comparse. L’immagine del pinocchietto che Fellini aveva disegnato come una seconda pelle per Roberto Benigni, è anche opera sua.