Srebrenica costituisce una ferita aperta nel cuore dell’Europa. Una ferita che non si può rimarginare, neanche a tanti anni di distanza, in quanto ci interroga su cosa siamo e su cosa siamo stati. I caschi blu olandesi inerti di fronte alla barbarie perpetuata da Mladić e Karadžić . Oltre ottomila morti: uomini bosniaci di religione musulmana massacrati e gettati nelle fosse comuni, mentre molte donne venivano stuprate o, per meglio dire, “contaminate” con il DNA serbo, al culmine di una rappresaglia che non si vedeva in quelle proporzioni dai tempi della Seconda guerra mondiale.
Fu un’azione spregevole, una vera e propria pulizia etnica, un genocidio volto ad annullare l’identità di un popolo e a rivendicare un’egemonia nemica della convivenza fra etnie diverse che aveva caratterizzato per decenni la storia jugoslava.
Srebrenica rimane lì, come testimonianza e sentinella di dove può arrivare il nazionalismo, di dove può spingersi l’odio e a quali atrocità può condurre.
Srebrenica è una macchia indelebile per tutti noi, un simbolo dell’indifferenza, della crudeltà, della disattenzione, del considerare gli esseri umani mere pedine su una scacchiera di equilibri geo.politici. Perché questa è la verità: della vita umana non ce n’è importato nulla o quasi in quel decennio. Ciò che contava era sconfiggere gli ultimi avamposti del comunismo, dimostrare plasticamente che la storia era finita e rimuovere un personaggio assai discutibile come Milošević senza preservare l’unità di un mondo che, di conseguenza, è andato in frantumi, mettendo a repentaglio la propria storia e la stabilità di un continente che, non a caso, da quel momento, si è allargato in maniera sbagliata. Com’è evidente, infatti, sono stati coinvolti paesi non ancora maturi per entrare a far parte dell’Unione Europea, fino a importare delle semi-dittature che nulla hanno a che spartire con i valori di Spinelli e con le ragioni per cui era stato concepito il progetto europeo.
La mancata coscienza della barbarie, l’oblio che è stato fatto calare su una delle pagine più oscene della nostra storia recente, la pressoché inesistente assunzione di responsabilità da parte di quanti furono, sostanzialmente, complici di quell’eccidio, il limitarsi a scuse tardive e insufficienti, il rifiuto di aprire un dibattito su quanto quella vicenda abbia condizionato il corso successivo degli eventi, tutti questi elementi ci riportano al dovere della memoria e alla necessità di batterci affinché non si continui a sentire quel ridicolo “mai più” ogni volta che viene rievocata la tragedia di Auschwitz. Spiace dirlo, ma un’altra Auschwitz, o comunque qualcosa di assai simile, si è verificata nei Balcani negli anni Novanta, e Srebrenica altro non è che la punta dell’iceberg di un orrore che ha squassato un’intera regione situata a poche miglia di distanza da noi.
Venticinque anni dopo tutto possiamo permetterci, tranne che illuderci di essere in pace con noi stessi. Quella mattanza è ancora lì, un macigno impossibile da rimuovere, e il risorgente nazionalismo, stavolta di matrice fascista, ne è il figlio legittimo.
Forse abbiamo fatto i conti con i carnefici, assicurandoli finalmente alla giustizia, ma non con le vittime e, soprattutto, con la sensazione che quell’inferno possa ripetersi altrove, in quanto l’Europa, per dirla con Metternich, al momento è solo un’espressione geografica.
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