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La biblioteca di Fellini

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Regista squisitamente letterario, Fellini fu incline ad attorniarsi di collaboratori che frequentavano i fatti umanistici; così come lungo la vita accolse ispirazioni anche direttamente da scrittori. Un côté letterario che ben si percepisce se solo riflettiamo sul fatto che al fianco del regista ci sono state le figure di un Ennio Flaiano, un Tonino Guerra, un Ermanno Cavazzoni, per citarne alcuni. E poi: come non pensare al terreno integralmente letterario di film come Casanova e Satyricon, provenienti dalle memorie dell’avventuriero veneziano e dall’antico romanzo di Petronio? Anche America di Kafka fu per lui al centro di una vicenda di rilievo: giudicava il romanzo una creazione letteraria che viveva di forza propria, tale da risultare irrealizzabile un trasferimento sullo schermo, che tuttavia desiderava tradurre in realtà. Fu così che nel 1987 nacque Intervista, pellicola soltanto ispirata – e tuttavia efficace omaggio – a Kafka.

Se anche si tratta di episodi minori, sono sufficienti a far capire che Fellini era in sintonia con i libri, un uomo che si fatica a immaginare senza letture. L’attrazione per Kafka non è cosa comune: reclama un basamento colto, una frequenza annosa dei libri, l’abitudine quotidiana alla lettura. La domanda diventa dunque: se è facile sospettare che l’inventiva di Fellini sia letteraria, aveva e leggeva libri? Sarebbe stato per me impossibile saperlo se non conoscessi la poetessa e scrittrice Rosita Copioli, amica di Fellini che ci ha lasciato una buona testimonianza in merito: è stata lei a entrare più volte nello studio romano «bianco e spazioso» che Fellini occupava al primo piano di Corso Italia 13 e a ricostruirne con la memoria gli scaffali nel bel saggio Se penso ai libri di Corso Italia. Il volume che contiene lo scritto – Il nostro sistema solare edito da Medusa nel 2013 – mi fu un giorno donato da Rosita, con una dedica che suona avvolgente: «Ad Antonio, questo ‘sistema’ che scruta intorno all’immaginazione». Ecco: parlare di libri è come parlare di immaginazione, di fantasia, ché non ci sarebbe questa senza quelli. Ripercorro allora le pagine di quel saggio, pur avendolo letto più volte, perché è una sorta di amabile cortometraggio girato con la pellicola delle parole, in uno dei luoghi topici della memoria felliniana.

Era il 3 settembre 1989 quando, dopo aver conosciuto Fellini all’anteprima de La voce della luna, la Copioli ricevette da lui una telefonata, e da quel momento innumerevoli furono gli incontri tra Roma e Rimini. I libri furono uno degli argomenti più vivaci di conversazione; i libri in generale ma soprattutto quelli che stavano sugli scaffali o sui tavoli dei luoghi di lavoro del regista: la poetessa, per uno di quei casi fortuiti della vita che lievitano inattesi tra le mani, diventò testimone privilegiata dello spicchio librario dell’intelletto di Fellini, che soffrendo d’insonnia leggeva per buona parte della notte. I libri facevano insomma strettamente parte della sua vita, e quelli che la Copioli vide dovevano essere solo una parte dei posseduti: altri, forse molti, dovevano trovarsi nella casa privata di via Margutta, dove il regista viveva con Giulietta Masina.

Come negare che Fellini sia un regista dei sogni? Come non accorgersi che nelle sue scelte di regia circola materia surreale? Dava ai sogni un valore preminente: da bambino aveva anche avuto esperienze paranormali, che raccontò spesso alla Copioli e che, stemperate nella materia artistica della pellicola, sono confluite nei suoi film. Era attratto dal cosmo delle percezioni e delle scienze sottili, e questa sua inclinazione si rifletteva in certe presenze della sua biblioteca. C’erano i teosofi, gli analisti, i mitologi, gli studiosi di percezione e di simbolica, e c’erano prima di tutto varie opere del maestro che più profondamente e assai seriamente gli aveva svelato quel mondo: Carl Gustav Jung. E dove c’è Jung, ci sono in genere i nomi che da quello specchio sono stati riflessi; fenomeno evidente anche nello studio di Fellini, dove apparivano opere dello studioso di psicoanalisi junghiana Aldo Carotenuto e soprattutto dell’analista Ernst Bernhard, sul cui lettino di analisi a Roma s’era disteso (non caso isolato: lo fece un intero drappello di letteratura italiana: Manganelli, Cristina Campo, Amelia Rosselli, Roberto Bazlen…). In ambito di psicologia si rilevava in quello studio la presenza delle opere di Renzo Canestrari, pioniere nel dopoguerra della rinascita della psicologia italiana e fondatore della scuola bolognese di Psicologia: si erano conosciuti nei primi anni Novanta e da allora Canestrari fu un grande ammiratore del regista (tanto da dedicargli la lectio magistralis  al momento del conferimento a Bologna della laurea ad honorem in psicologia), così come il regista si legò alle idee dell’uomo, espresse nei libri che facevano capolino nello studio (la cosa in certo modo mi fa piacere, visto che Canestrari è figura che io stesso ho incrociato nei miei anni bolognesi).

A fianco della psicoanalisi non mancavano le edizioni dei grandi testi orientali: I Ching, VedaUpanishadBaghavad Gita. Purtroppo non mancava il “cialtrone” Castaneda, aggiunge Rosita; ma tale non era Ouspensky, il filosofo russo novecentesco che alla riflessione psicologica aveva combinato una robusta vocazione mistica, vicino anche per rapporti di conoscenza col mistico armeno Gurdijeff, sul cui insegnamento scrisse nel 1947 In cerca del miracoloso: frammenti di un insegnamento sconosciuto, libro che stava nello studio di Fellini, vicino alle Brecce di Michaux e alla fila dei Bergson, Bachelard, Caillois. Come si armonizzava quel mondo? Lo esprime la Copioli in maniera perfetta: «Un’infinità di analogie, associazioni, rimandi, corrispondenze sia storiche che archetipiche intrecciavano dèi e Dio, angeli, dèmoni, santi: antropologia, mitologia, folclore, magia, fiabe, fantastico, soprannaturale, fantascienza, psicanalisi, psicologia, analisi, attraversando la letteratura dai classici ai romantici». E Fellini ne era imbevuto, una produzione filosofica e letteraria che aveva profondamente e precocemente assorbito e che «inseguiva in tutte le metamorfosi moderne».

Ora, come ben sa chi frequenta psicoanalisi e scienze sottili, uno dei muri di quel mondo confina con la casa della letteratura, e gli scaffali di Fellini lo testimoniavano: vi si allineavano i classici antichi (nelle edizioni della Fondazione Valla) e quelli delle epoche romantiche e moderne. Spostandoci verso il Novecento non meraviglia, alla luce di quanto detto, che in quella biblioteca spiccasse – come autore assai amato – un Landolfi: chi conosce la scrittura dell’autore non faticherà a cogliere l’assonanza tra lo stile aristocratico e al contempo sperimentale dello scrittore e il connubio tra materia popolare e universo fantastico del regista. Anche l’inventiva – barocca nell’un caso, nitidamente classica nell’altro – di un Manganelli e un Calvino faceva parte delle attrazioni di Fellini, che possedeva anche Gadda, autore stimato ma – come risulta dalla testimonianza – non frequentato.

L’universo sognante di Fellini implicava che nella vita ci fosse un qualche distacco da una realtà sentita come coniugata in prosa. Amava infatti la poesia, che possedeva in ampio repertorio novecentesco: Pasolini, di cui prediligeva L’usignolo della chiesa cattolica (anche se poi, su altro versante, non celava la sua avversione per come erano fatti i film del poeta friulano), come anche Ungaretti, Montale, Saba, Gatto, Quasimodo, Penna, Caproni, Luzi, Andrea Zanzotto, Maria Luisa Spaziani; e su su fino ai più recenti Antonio Porta, Giuseppe Conte, Valerio Magrelli. Ciò non significa che gli mancasse la prosa; anzi: c’era quella degli autori amati, con i quali semmai stringeva rapporti di amicizia: i romanzi di Mario Tobino, i saggi di Pietro Citati.

Giustamente la Copioli sottolinea che molto mancava dallo studio romano, ma quel molto poteva essere in via Margutta, perché Fellini gli parve irrefutabilmente uomo legato ai libri, e chi lo è non rinuncia alle cose importanti, che se assenti da Corso Italia erano di certo altrove. Ma soprattutto, ella aggiunge che «in questa piccola biblioteca, come è giusto, i libri che compaiono non significano adesione agli autori. Basti pensare alla presenza di Barthes o Sartre, per lui solo figure del tempo». E non era il solo a nutrire sospetto verso un Sartre, figura di spiccato criticismo ma paradossalmente di adesione un po’ acritica verso certo spirito del tempo.

Insomma: Fellini leggeva, forse anche molto. Una mattina chiamò la Copioli per dirle che l’aveva vista citata da Tondelli in Un week-end post-moderno, in una di quelle belle sorprese che colgono tutti noi quando scoviamo, anche solo nelle note accademiche di un gravoso saggio, il nome di una persona amica, con cui semmai abbiamo chiacchierato mesi prima. Inutile negarlo: ci fa piacere, e se possiamo lo comunichiamo alla persona citata.

Alla fine, quel che si poteva notare in Fellini era una certa indifferenza alla formazione di una biblioteca organica. Ma questo può significare in primo luogo che la persona è attratta dai contenuti più che dall’abbaglio della completezza o – patologia ancor più grave – della bibliofilia.


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