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Carcere giornalisti, al rilievo di incostituzionalità seguirà l’adattamento del nostro Ordinamento

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All’esito della udienza del 09/06/2020, la Corte Costituzionale, con Ordinanza N. 132 (dep. il 26/06/2020), riuniti ai fini della decisione i giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 13 della Legge sulla Stampa e dell’art. 595 co. 3 c.p., promossi dai Tribunali di Salerno (con ordinanza del 09/04/2019) e Bari (con ordinanza del 16/04/019), sul presupposto che entrambi i giudici rimettenti hanno sollevato analoghe questioni, ha rinviato la trattazione del giudizio alla pubblica udienza del 22/06/021.
Ma andiamo con ordine. I giudici rimettenti, con le citate ordinanze, censurano il fatto che la previsione astratta della sanzione detentiva per il delitto di diffamazione aggravata, perché commessa col mezzo della stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato ( di cui all’art. 13 della Legge sulla Stampa), si pone in contrasto con l’art. 10 della CEDU, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, e quindi con l’art. 117 co. 1 Cost.
Per il Tribunale di Salerno, che estende la questione anche alla diffamazione aggravata perché commessa col mezzo della stampa (di cui all’art. 595 co. 3 c.p.), la previsione della pena detentiva, per entrambe le suddette ipotesi di diffamazione aggravata, sarebbe altresì in contrasto anche con gli articoli 3, 21, 25 e 27 della Costituzione.
La motivazione di entrambe le ordinanze di rimessione è articolata su ampi richiami alla giurisprudenza della Corte EDU in materia di libertà di espressione, tutelata ex art. 10 CEDU. In particolare, l’art. 10 CEDU prevede che:
“1. Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli stati di sottoporre a regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.
2. L’esercizio di questa libertà, poiché comporta doveri di responsabilità, può essere sottoposta a formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
Come si evince dal testo della citata norma, la libertà di espressione è sottoposta ad eccezioni che devono, tuttavia, essere interpretate in modo restrittivo.
Ciò posto, sul tema della congruità del trattamento sanzionatorio previsto nel nostro Ordinamento, rispetto ai fatti di diffamazione aggravati di cui all’art. 13 della legge 47/1948 e all’articolo 595 co. 3 del codice penale, occorre muovere da questa idea di fondo che anima la giurisprudenza della Corte EDU: assicurare ampi spazi alla libertà di stampa, quale veicolo di trasmissione delle informazioni ai cittadini e strumento di controllo, nelle società democratiche, dei pubblici poteri. La stampa, dunque, come “cane da guardia” della democrazia.
D’altronde, la libertà di espressione costituisce un valore garantito anche dall’ordinamento interno attraverso la tutela costituzionale del diritto/dovere d’informazione, cui si correla quello all’informazione (art. 21 Cost.), diritti questi che impongono – anche laddove siano valicati i limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca e/o critica – di tener conto, nel sanzionare la condotta del giornalista, della insostituibile funzione informativa esercitata dalla categoria di appartenenza.
In ragione di tale funzione riconosciuta all’attività giornalistica, la stessa Corte Costituzionale la ritiene meritevole “di essere salvaguardata contro ogni minaccia o coartazione, diretta o indiretta (sentenza n. 172 del 1972) che possa indebolire la sua vitale funzione nel sistema democratico, ponendo indebiti ostacoli al legittimo svolgimento del suo ruolo di informare i consociati e di contribuire alla formazione degli orientamenti della pubblica opinione, anche attraverso la critica aspra e polemica delle condotte di chi detenga posizioni di potere”.
La formula che ricorre nelle sentenze della Corte EDU è quella del chilling effect, dell’effetto cioè di “raggelamento”, dissuasivo, che la sanzione detentiva già solo nella sua previsione astratta può avere sull’esercizio dell’attività giornalistica (Corte EDU sent. 17/12/2004 Cumpănă e Mazăre c. Romania).
D’altronde, se guardiamo alle decisioni della Corte EDU in materia, si nota come questa – pur affermando che la previsione di una sanzione detentiva per il giornalista diffamatore (e a fortiori l’irrogazione della pena della reclusione in concreto) non è sempre incompatibile con l’art. 10, risultando al contrario legittimata in «circostanze eccezionali», lesive di altri diritti fondamentali, come nei casi di istigazione all’odio razziale o etnico, o di incitamento alla violenza – abbia costantemente esercitato uno scrutinio particolarmente stringente sulla proporzione di tale tipo di trattamento sanzionatorio, anche a fronte di episodi contrassegnati da una certa gravità, escludendo, in concreto, la sussistenza di una violazione dell’art. 10 della Convenzione soltanto ove la pena inflitta abbia avuto natura pecuniaria.
Significativa in tal senso è la sentenza della Corte EDU del 24/09/2013, Belpietro c. Italia, ove la Corte non ha esitato, pur a fronte di un fatto illecito, a ritenere sussistente la violazione dell’art. 10 CEDU in conseguenza della condanna del direttore di un giornale, ex art. 57 c.p., a pena detentiva, sebbene condizionalmente sospesa.
Il precedente fondamentale in materia è rappresentato, comunque, da Cumpana e Mazare c. Romania, ove la Grande Camera ribadiva la violazione dell’art. 10 della Convenzione in un’ipotesi di condanna di giornalisti per fatti di diffamazione alla pena della reclusione.
In tale occasione, ancora una volta, la Grande Camera sottolineava l’argomento del giornalista “cane da guardia” della democrazia e l’effetto dissuasivo delle sanzioni detentive rispetto all’esercizio della libertà di stampa, e ciò indipendentemente dal fatto che la pena non avesse avuto concreta esecuzione, ammettendo – con una formula poi divenuta una costante – la compatibilità della sanzione della reclusione con la libertà convenzionale solo in casi eccezionali, quando altri diritti fondamentali siano stati lesi, come ad esempio nei discorsi di incitazione alla violenza e d’odio.
Formula, quest’ultima, presente anche in numerose Risoluzioni e Raccomandazioni dell’Assemblea del Consiglio d’Europa.
Ed è in questo quadro che si inserisce la sentenza del 07/03/2019, Sallusti c. Italia, dove, valorizzando ancora una volta l’essenzialità del ruolo della stampa nelle società democratiche, la Corte EDU ribadisce l’incompatibilità con l’art. 10 CEDU dell’inflizione della pena detentiva nei confronti di un giornalista riconosciuto responsabile di diffamazione.
Anche in questo caso la Corte EDU non censura la valutazione del giudice italiano sulla sussistenza della responsabilità penale per il reato di diffamazione, ravvisando la violazione dell’art. 10 CEDU unicamente nell’inflizione della pena della detentiva.
Ciò non toglie, tuttavia, e la Corte Costituzionale lo sottolinea, che il legittimo esercizio della libertà di informazione, da parte della stampa e degli altri media, debba essere bilanciato con l’esigenza di assicurare tutela anche ad altri diritti di rango costituzionale.
Fra questi, ruolo centrale spetta al diritto alla reputazione della persona, in quanto diritto inviolabile ex art. 2 Cost., ma anche elemento fondamentale del cd. diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, oltre che diritto riconosciuto dall’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Muovendo da tali premesse la Corte Costituzionale valuta inadeguato il bilanciamento sotteso alla disciplina sanzionatoria di cui all’art. 595 co. 3 c.p. e all’art. 13 della Legge sulla Stampa, che si basa proprio sulla previsione, in via rispettivamente alternativa e cumulativa, di sanzioni detentive e pecuniarie nei confronti del giornalista che travalichi i limiti del corretto esercizio del diritto di cronaca/critica.
Da qui, prosegue la Corte, la necessità di provvedere a ricalibrare quel bilanciamento, onde garantire adeguata tutela tanto alla libertà di stampa quanto alla reputazione individuale delle vittime degli abusi di quella libertà, che oggi sono esposte a rischi maggiori rispetto al passato, dati gli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet…”.
Un tale compito, prosegue la Corte, investe in primis il potere legislativo, sul quale grava la responsabilità di individuare le complessive strategie sanzionatorie idonee a garantire un tale delicato bilanciamento tra diritti in conflitto.
Il potere legislativo, infatti, “è meglio in grado di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica), ma a efficaci misure di carattere disciplinare. In questo quadro, il legislatore potrà eventualmente sanzionare con pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumono connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi un’istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”.
Ciò posto, lungi dal volersi sottrarre al suo compito istituzionale di verificare, su sollecitazione dei giudici comuni, la compatibilità con la costituzione delle disposizioni legislative in essere, la Corte sottolinea come, rispetto alle possibilità di intervento di cui dispone il legislatore, sconta “la limitatezza degli orizzonti del devolutum e del rimedio a sua disposizione, che segnano il confine dei suoi poteri decisori; con il connesso rischio che, per effetto della stessa pronuncia di illegittimità costituzionale, si creino lacune di tutela effettiva per i contro interessati in gioco, seppur essi stessi di centrale rilievo nell’ottica costituzionale…”.
In ragione di tanto, rilevato che davanti al Parlamento risultano in corso di esame numerosi progetti di legge di riforma in materia di revisione della disciplina della diffamazione a mezzo stampa, per spirito di leale collaborazione istituzionale e nel rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni, la Corte Costituzionale ha ritenuto opportuno pronunciare un’ordinanza, priva della declaratoria di incostituzionalità (che richiede una sentenza) con cui la trattazione del giudizio è stata rinviata all’udienza del 22/06/021, “in modo da consentire al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina in linea con i principi costituzionali e convenzionali sopra illustrati”. Con tale provvedimento, in conclusione, la Corte ha utilizzato la tecnica decisoria, inaugurata per la prima volta con l’ordinanza n. 207 del 2018, che la dottrina ha definito “ad incostituzionalità differita”
Dalla motivazione della predetta ordinanza, infatti, appare evidente che le norme censurate siano già state valutate come contrarie a specifici parametri costituzionali.
È quindi ragionevole ipotizzare che arriverà il momento in cui a questo rilievo di incostituzionalità seguirà l’adattamento del nostro Ordinamento.
L’incostituzionalità rilevata, in definitiva, esige un rimedio che giungerà differito o al tempo dell’intervento del legislatore o a quello della definitiva pronuncia del giudice costituzionale.
* avvocato del Sindacato unitario giornalisti della Campania

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