Dall’anno scorso è in atto un tentativo di dare vita ad un rete mondiale dell’ebraismo progressista: l’erosione della democrazia in Israele, la negazione dei diritti dei palestinesi a un’esistenza indipendente, le spinte minacciose verso l’annessione di parti della Cisgiordania, la marea montante di intolleranza e pulsioni antisemite in più Paesi del mondo rendono urgente un’azione comune.
Vi è una diversità profonda fra l’ebraismo americano e quelli di altri Paesi rispetto a Israele. Gli ebrei americani sia nel voto (per oltre il 70% in favore del partito democratico nelle elezioni di Midterm del 2018) sia nel dibattito politico-culturale sono critici degli atti del governo di Israele. L’alleanza fra Trump e Netanyahu ha rafforzato tale sentimento. In Europa, Australia, Sud Africa, ecc., le istituzioni ufficiali dell’ebraismo sono in genere su posizioni conservatrici, spesso allineate in un sostegno dei governi di Israele o timide nel manifestare il dissenso. Le voci critiche sono minoritarie.
In Israele appena il 10% circa dei cittadini ebrei si riconosce attivamente nel campo della pace. La sinistra ebraica è rimasta nelle elezioni di marzo appena al 5% dei seggi, indebolita dallo slittamento di voti “utili” degli oppositori di Netanyahu verso il partito Blu e bianco, poi confluito in questi giorni in un governo di unità nazionale; solo i due partiti detti sopra e la Lista araba unificata, che ha ottenuto un notevole successo giungendo a quasi il 20% dei suffragi, hanno agitato il tema dei diritti dei palestinesi a uno stato e i limiti di una democrazia incompiuta.
Questo lavoro di tessitura ha prodotto un risultato importante. Sotto l’etichetta J-Link si è raggruppato uno spettro ampio di organizzazioni ebraiche progressistenegli provenienti da Stati Uniti, Europa, Canada, Sudafrica, Sudamerica, Australia e Israele.
Il primo atto è stato l’invio di una lettera a parlamentari contro il proposito, paventato dal Governo entrante, di annettere una parte rilevante, circa un terzo, della Cisgiordania, senza una trattativa con i palestinesi, in contrasto con le risoluzioni dell’Onu e il diritto internazionale. Con una maggioranza semplice del Parlamento, una decisione siffatta porrà fine alla possibilità di una soluzione “a due stati” del conflitto.
Le implicazioni saranno dirompenti. Soprattutto la Giordania fortemente popolata di palestinesi, in particolare rifugiati, potrebbe essere percorsa da un’onda di instabilità e costretta a rivedere il Trattato di pace che la lega a Israele dal 1994.
La comunità internazionale, i Paesi della Ue in primis, difenderanno la soluzione “a due stati”; quanto agli atti concreti, al di là della diplomazia “dichiarativa”, la Ue dispone di mezzi di pressione non irrilevanti. L’impegno ad applicare la direttiva convalidata dalla sentenza della Corte di giustizia europea circa l’esigenza di etichettare in modo corretto le produzioni degli insediamenti (non made in Israel) in conformità con il principio di una distinzione netta fra gli insediamenti, illegali, e lo Stato di Israele. La conferma delle regole introdotte nel 2013 che escludono l’erogazione di prestiti o doni finanziari a entità operanti negli insediamenti. Nell’ambito della ricerca scientifica, sotto l’egida di Horizon Europe, la decisione di escludere dalla fruizione di contributi agenzie o istituzioni pubbliche insediate nei territori. La Ue potrebbe reagire inoltre con maggiore vigore alle confische, demolizioni di case, ordini di espulsione dei palestinesi da Gerusalemme est o altre aree della Cisgiordania.
Ma è il futuro di Israele che ci sgomenta di più. Dei costi distruttivi dell’occupazione sulla società, siamo consapevoli da tempo. Con l’annessione, l’attuale sistema legale, doppio e separato, che opera nei Territori distinguendo i coloni israeliani soggetti alla legge israeliana e gli abitanti palestinesi soggetti a un regime militare, troverà una sanzione sul piano normativo: Israele sarà uno Stato che discrimina ufficialmente i palestinesi, sulla base di un principio di appartenenza etnica, privandoli di diritti civili e politici, violando gli stessi dettami di uguaglianza sanciti dalla Dichiarazione di indipendenza del 1948 che sono a fondamento della genesi e della storia dello Stato.