Dopo l’annuncio fatto il 25 giugno da parte del presidente egiziano al-Sisi di un provvedimento di grazia in favore di 530 detenuti, stanno emergendo alcuni dettagli che fanno temere che si tratterà di un nuovo decongestionamento delle carceri non basato sui diritti umani.
Il provvedimento, si dice, riguarderà detenuti per i quali è stata emessa una sentenza e che hanno scontato almeno una parte della pena. Il rischio è che escano dalle carceri ladri e corrotti, magari anche assassini.
Come noto, i prigionieri politici e quelli di coscienza in Egitto vengono tenuti senza processo anche per due anni (il periodo massimo di detenzione preventiva previsto dalla legge, che spesso come nel caso di Ibrahim Metwally viene prolungato attraverso nuove artificiose accuse). Si tratta di una procedura standard, che si perpetua attraverso udienze di rinnovo della detenzione del tutto rituali, volta a far finire nell’oblio queste persone.
Patrick Zaky è in detenzione preventiva da oltre 140 giorni. Da periodi di tempo persino più lunghi sono altri prigionieri di coscienza, come l’avvocata Mahienour el-Masry o Alaa Abdelfattah, uno dei leader della rivoluzione del 2011.
Dunque, chi non avrebbe mai dovuto mettere piede in una prigione rischia di rimanerci.
Ma se il provvedimento è stato annunciato come misura per contrastare la diffusione della pandemia da Covid-19, perché non iniziare dagli ammalati e dagli innocenti? Patrick Zaky è tanto l’uno quanto l’altro.
Per questo, insieme a molti parlamentari e al Comune e all’Università di Bologna, stiamo chiedendo al presidente del Consiglio Conte e al ministro degli Esteri di Maio di sollecitare il presidente al-Sisi a prevedere una cosiddetta “eccezione Zaky”. In un sistema giudiziario del tutto privo d’indipendenza, qual è quello del Cairo, è lui a decidere. E una telefonata, fatta di quei rapporti buoni, amichevoli e personali che le istituzioni italiane vantano di avere col leader egiziano, potrebbe fare la differenza e riportare in libertà Patrick.
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