Il nume sabotatore: una intervista a Edoardo Sanguineti a dieci anni dalla scomparsa

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Riproponiamo un ricordo-intervista a Edoardo Sanguineti (Genova, 9 dicembre 1930) a dieci anni della sua scomparsa (Genova, 18 maggio 2010)

Il suo sguardo sbanda indiscreto tra gli stucchi rococò e gli affreschi pomposi che riempiono le volte principesche di Palazzo Biscari a Catania. Abbiamo incontrato Edoardo Sanguineti nell’unica occasione che lo ha visto in Sicilia, almeno a nostra memoria, per la prima volta: i “Poeti in treno” (in partenza da e per la stazione di Catania Centrale), l’iniziativa del mecenate Antonio Presti, coordinata da Maria Attanasio, nel lontano 2001.

Il nume più eversivo della poesia italiana, ci accoglie cordiale asciugando con una tirata secca l’esile paglia, pendula sulle labbra, mentre i putti della balconata barocca gli restituiscono sguardi di pietra. “Sono abbastanza impressionato – esordisce – dal fatto che oggi in treno la gente non discuta più, che sia sempre meno comunicativa; allora la scommessa dei “Poeti in treno” l’incontro con gli studenti, i pensionati e i lavoratori pendolari, si fa particolarmente rilevante: diventa un modo per riproporre alla gente il semplice comunicare”.  La parola è ideologia ma può diventare offerta – continua lui – perché ogni ideologia viene offerta: ognuno cerca di comunicare la propria idea del mondo. Magari per innescare una nuova immagine della poesia che – lo parafrasiamo – non è al servizio della rivoluzione ma è la rivoluzione sul terreno delle parole. “Non sempre – corregge lui garbato – la poesia è rivoluzionaria o critica sulle esperienze della realtà: può anche essere conciliante con lo stato delle cose”. Per uno che ha fatto del rigore critico e dell’estremismo linguistico la cifra del suo agire suonerebbe quasi come una bestemmia se non fosse egli stesso a puntualizzare: “Io ho sempre cercato sempre di fare una poesia che avesse un carattere contestativo e rivoluzionario – se la parola non è troppo ambiziosa – soprattutto in presenza di molte esperienze poetiche che giudico reazionarie, conservative, specie la poesia che si legge generalmente”. Sanguineti, che nell’impegno politico si è calato in prima persona, di poesie ne ha continuato a scrivere sia da consigliere comunale che da parlamentare: “Si, ho fatto tanti comizi quante poesie, consumando tante energie ma non sono la stessa cosa”. E’ ancora convinto che la nozione di letteratura debba essere sostanzialmente quella della crudeltà, cioè della demistificazione. “Fondamentalmente si. Oggi magari non userei più quelle parole, perché ho attraversato anche altre esperienze. Ma sono un uomo ostinato o forse solo monotono”. Non lo è certo Edoardo Sanguineti, considerate le esperienze con altre forme d’arte al di fuori dell’ambito letterario, dalle avanguardie musicali, a quelle teatrali e pittoriche per una collaborazione che lui definisce aperta: “Non è necessario stabilire la supremazia di una espressione artistica su un’altra, piuttosto istituire uno scambio concreto nel lavoro di chi utilizza strumenti assai distinti”. Anche se per le gabbie cronologiche delle antologie e dei manuali il suo periodo attuale, dopo la militanza politica, è quello della disillusione e dello scetticismo disimpegnato, Sanguineti ci smentisce in maniera dialetticamente sorniona: “Io scrivo ancora poesie comuniste e sono ancora comunista e da questo punto di vista non sono affatto disilluso: è che non ho mai praticato l’illusione…” Essere comunisti significa essere realisti. La fine delle ideologie – gli chiediamo allora – ha innestato l’ideologia della fine? “Ma no! La formula fine delle ideologie è una maniera elegante utilizzata dagli intellettuali conservatori e ha funzionato in questo senso. In realtà la teoria sulla fine delle ideologie è ideologia essa stessa. Ed è l’ideologia reazionaria che al momento pare trionfare. Ma solo per il momento”.


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