“A distanza di trent’anni devo dire che Falcone e Borsellino avevano ragione a dire che erano soli. Il marcio era dentro e c’è ancora”. È il 2018 quando per la prima volta parlo con l’imprenditore Arnaldo Giambertone. Dopo aver denunciato la mafia è spaventato dalle intimidazioni, vive braccato, chiuso in casa, scansato da amici e parenti. Eppure vuole raccontarmi la sua storia: quando inizio a scrivere decidiamo che per la sua incolumità nell’articolo avrà un altro nome, si riconoscerà ma per tutti sarà Gino.
Gino nasce in un cantiere a Palermo, nel villaggio Santa Rosalia. Il 1986 fu per la sua impresa edilizia un anno florido, come una prosecuzione di quel che da sempre era stato destinato a fare. Tuttavia all’ospedale civico con il fratello si troverà proprio in quell’anno e negli anni a seguire ad assistere il padre malato, in quei corridoi asettici avvicinato per la prima volta da un uomo d’onore che apparteneva a una delle famiglie storiche di Cosa nostra, boss di Santa Maria del Gesù.
Dato che due delle punte di diamante che rendono la criminalità forte e organizzata sono gli appalti e le estorsioni, è chiaro come l’avvicinamento di Gino per il capoclan non fosse casuale: la sua famiglia da generazioni infatti ricopre un ruolo di tutto rispetto nell’industria e nell’edilizia, sia in Sicilia sia sul territorio nazionale. Nel 1986 Gino è fiero della sua impresa, “ero un giovane imprenditore immaturo e irresponsabile” come si definisce oggi con il segno di poi.
Altra punta di profitto per Cosa nostra è lo spaccio di stupefacenti. Negli anni Ottanta, tra sequestri di persona e contrabbando di tabacco, a cavallo con la seconda guerra di mafia, ciò che più di tutto sembrava arricchire le casse delle storiche famiglie era la raffinazione dell’eroina di cui ben presto Cosa nostra ebbe il pieno monopolio. Fino al 1981 tutti si arricchirono: gli Inzerillo, i Bontate, i Gambino di New York. Buscetta, quello che sarebbe diventato “l’uomo dei due mondi”, aprì la sua prima pizzeria nel 1966 proprio grazie alla famiglia Gambino, pizzeria che come molte altre si scoprirà essere una copertura al traffico transnazionale di eroina oggi passata nelle mani dell’ndrangheta.
Per raccontarmi quegli anni Gino dice solo che prima era diverso. Prima, quando Ciancimino era il re del cemento, prima che i Corleonesi facessero guerra a tutti. “Conoscevamo personaggi e famiglie potenti mafiose”, la percezione per i palermitani all’epoca non sembrava destare tanti sospetti come oggi. “All’epoca si pagava in maniera diversa il pizzo”, gli chiedo come. “Facendo lavori senza percepire denaro in cambio, sfruttando amicizie particolari di medici e professionisti in genere per fare uscire le persone dal carcere, prestando soldi senza ritorno alle famiglie dei mafiosi in carcere”. Funzionava così, normale dunque che il boss in ospedale, una volta entrato in confidenza, cominciò a chiedergli quel tipo di favori. “Se non lo facevi eri uno inaffidabile e non potevi lavorare” mi dice Gino come a giustificarsi. Nella logica di Cosa nostra tutto può essere aggiustato purché si mantengano le promesse, così nel circolo vizioso che si viene a creare all’imprenditore, se vuol continuare a lavorare, non resta che pagare il pizzo, riconoscere l’autorità mafiosa e avere così protezione dal capomafia locale. “La gente, ancor oggi, ci pensa cento volte prima di fare le truffe se dietro a un’impresa c’è la mafia, anche i clienti che fanno le commesse” prosegue Gino quasi rassegnato.
Mi racconta di quando durante il Maxi Uno soccorreva il padre ammalato in ospedale e lì trovava tutti: “Vernengo, Bontate, agli arresti ma tutti in ospedale”. Al Civico di Palermo un giorno un uomo gli chiede una sigaretta, chiede quanti anni ha e che lavora fa, poi gli dice “stai lontano da questa gente”. Il massone che faceva parte dell’Ente dello Sviluppo Agricolo era il cognato di Stefano Bontate, ma Gino è troppo giovane e non capisce il suggerimento.
Dopo il maxiprocesso tutto cambia. “Io personalmente finisco nelle mani dei peggiori usurai della città pagando lo sconto di assegni sino al 10% al mese in complotto con i preposti allora di banca dove ero correntista. Alla Sicilcassa di Palermo che riciclava denaro e che insieme al Banco di Sicilia decideva chi doveva ottenere i fidi e chi doveva fallire. C’era anche la Banca S. Angelo allora della famiglia Curella”. Poi un lampo di gioia che scompare pian piano. “Nel 1990 conobbi una ragazza bellissima, era di Casteldaccia e apparteneva alla famiglia mafiosa di Panno. Mi feci fidanzato con lei per due anni entrando a far parte della sua famiglia” anche se, a tre settimane dal matrimonio, lei lo lasciò per un sottufficiale della Marina.
Era a Casteldaccia che ebbe iniziò la seconda guerra di mafia. Giuseppe Panno, detto Piddu, era il boss e faceva parte della Commissione provinciale fino a che non venne fatto sparire per lupara bianca nel 1981, perché era vicino a Stefano Bontate che insieme a Salvatore Inzerillo aveva messo a punto un piano per uccidere Salvatore Riina.
“Prima chi denunciava era morto, forse sono fortunato se sono ancora vivo”, già perché nel 1992 a Partinico gli hanno “sparato addosso” e a Borgo Vecchio quattro anni dopo gli hanno dato fuoco al cantiere, sempre gli stessi, quelli che girano nei processi, entrano ed escono dal carcere.
È un racconto lungo e articolato e Giambertone che dal 2016 è sotto tutela dello Stato con una vigilanza dinamica è diventato testimone di giustizia per aver denunciato i suoi aguzzini.
“Nel 2005 mi hanno chiesto diecimila euro di pizzo. Mi hanno chiuso in un magazzino, mi hanno dato l’ultimatum… Poi un anno dopo sono stato avvicinato da un amico imputato negli anni Novanta con i Farinella, ma quando ho capito che aveva contatti con Giovanni Nicchi [considerato il reggente del clan Pagliarelli, ndr.] mi sono allontanato. Mi rifiuto materialmente di avere a che fare con certa gente”. L’anno scorso, prima con l’operazione antimafia Apocalisse e poi con l’operazione Talea, un centinaio di persone dei mandamenti di Resuttana e San Lorenzo sono state arrestate. “Nel settembre del 2017 ero nel rione Marinella per un lavoro e sono stato costretto a lasciarlo ai Lo Piccolo, il prezzo da pagare per essere considerato uno spione. Negli ultimi anni Palermo è migliorata, ma la gente è comunque omertosa” sentenzia Gino, è lui insieme al neo pentito Sergio Macaluso che tramite dichiarazioni e intercettazioni degli inquirenti, aiuterà la Dda di Palermo nell’operazione che seguì quella di Talea e dispose il fermo per cinque persone nel mandamento di San Lorenzo: Giuseppe Biondino, figlio dell’ex autista di Riina oggi all’ergastolo che finirà in regime di carcere duro, Salvatore Ariolo, Bartolomeo Mancuso, Francesco Lo Iacono e il tunisino Ahmed Glaoui, il primo straniero affiliato a Cosa nostra che gli ha detto gli avrebbe “scippato la testa” se non avesse pagato e se non avesse fatto intervenire nei lavori di scavo, in un suo cantiere di Cinisi, “un mafioso appena uscito dal carcere del mandamento di Partanna Mondello, tale Zio Ciccio” come precisa Gino.
Dopo mesi l’articolo non esce, è troppo pericoloso. È proprio a causa del pentito Macaluso che Giambertone teme di essere scaricato, tema di essere solo un’esca che lo Stato tutela con una vigilanza dinamica per tre volte al giorno. È sotto tutela per paura delle ritorsioni dei Biondino ma anche per gli affiliati del tunisino che si trovano nella famiglia di Partanna Mondello. Le intimidazioni, i furti e i danneggiamenti nei cantieri, l’avvelenamento dei cani, i tentati avvicinamenti non si placano neanche dopo il primo processo scaturito dall’operazione Talea, della cui sentenza l’imprenditore palermitano è molto scettico: “È stata vergognosa, una grande delusione” mi dice, “dei 28 che con me si sono dichiarati parte offesa, almeno io ho portato a casa un risultato: due di quelli denunciati sono stati condannati”. Si riferisce al tunisino e a Bartolomeo Mancuso a cui il giudice ha dato quattro mesi senza riconoscergli l’associazione mafiosa. Ma la sentenza lo scuote e riprendo a scrivere da dove avevamo lasciato: “Ormai non sono più disposto a stare in silenzio, è giusto che la gente sappia. Non sono io a dovermi nascondere, sono loro”.
È il 2019, aggiorno la sua situazione sul bloc-notes: in quanto testimone di giustizia sta beneficiando dell’articolo 20 della Procura della Repubblica (legge 44/99) che dovrebbe sospendere tutte le procedure esecutive nei suoi confronti, ma invece al momento con la sua impresa si trova in una situazione di ristrettezze economiche e il fondo per le vittime di estorsione non è ancora stato erogato. Ha ancora la vigilanza dinamica ma viste le continue minacce è preoccupato e ha chiesto esplicitamente alla Procura di aumentare la tutela.
Quando riprende a parlare siamo nel 2020 ed è più sicuro, esce dall’anonimato con un’intervista ai colleghi di Meridionews: il suo nome è Arnaldo Giambertone, imprenditore palermitano che ha denunciato la mafia.
“Una settimana fa ho chiesto l’intervento dei Carabinieri per uscire di casa i quali mi hanno scortato sino in cantiere a causa del tentato avvicinamento di pregiudicati” mi aggiorna, “li ho pure denunciati: Giuseppe Campisi, sorvegliato speciale condannato nel processo Addiopizzo, l’uomo che mi hanno fatto affiancare i Carabinieri per indagini che gli interessavano nel mandamento di Resuttana, in particolare Nunzio Serio [considerato elemento di spicco della famiglia di Tommaso Natale, ndr] fedelissimo dei Lo Piccolo”. E a proposito di Nunzio Serio – lo stesso che insieme a Giulio Caporrimo voleva controllare i cantieri edili nella zona di Tommaso Natale, scoperti nell’ultima indagine della Procura e dei Carabinieri del nucleo investigativo di Palermo, l’operazione Teneo – aggiunge: “Mi convocò allo Zen una mattina nel 2017 tramite il Campisi che mi accompagnò scortato da uomini della investigativa che ci seguivano a distanza con le cimici che mi consegnarono prima di andare, l’appuntamento fu dato dal Serio nel laboratorio di una macelleria, ma quando arrivammo in loco Serio non si fece trovare. Si pensò che qualcuno lo avesse avvertito della presenza dei Carabinieri e si dileguò”.
Dalla prima denuncia finalmente ha ripreso a lavorare. “Ho preso dei nuovi uffici nel cuore del centro storico di Palermo”, mi dice. Con lui c’è anche Daniele Ventura, un giovane imprenditore che insieme ad altri con le sue denunce nel 2011 aveva permesso ai Carabinieri di Palermo e alla Dda di decapitare i mandamenti di Porta Nuova e poi di Pagliarelli. “Daniele oggi è parte integrante della nostra piccola azienda che tiriamo avanti con le nostre forze. Anche se le cose non sono poi cambiate così tanto a distanza di trent’anni, ripartiamo da dove ci hanno fermati con la prepotenza”. Quando infine gli chiedo se c’è qualcos’altro su cui vorrebbe porre l’accento lui mi parla dei testimoni di giustizia, della riforma che a dicembre 2017 è diventata legge sulla tutela, il reinserimento sociale e lavorativo, il sostegno economico di quei cittadini come lui divenuti testimoni di giustizia e che lo Stato ha il dovere di aiutare e supportare, non riesce a spiegarsi la diversità di trattamento delle vittime di mafia perché alcune vengono ascoltate e protette ed altre abbandonate. “Ancora oggi non vado a fare la spesa al supermercato dietro l’angolo, perché temo di ritrovare i miei estorsori. Da settembre 2019 attendo di essere ascoltato in Commissione Parlamentare Antimafia a Roma e ancora attendo i benefici previsti dalla legge 44/99”.
Su Talea il 3 luglio la Corte d’Appello di Palermo dovrebbe pronunciarsi sulla revisione della sentenza di primo grado e sulle motivazioni che sono state messe in discussione dalla procura generale. “Per poter continuare a vivere mi sono privato di tutto” riprende l’imprenditore con dignità e speranza all’indomani dell’operazione Teneo in cui, a distanza di tre anni, ha visto rientrare altre sue denunce risalenti al settembre 2017.