“Immuni ha rilevato che il giorno X sei stato vicino ad un utente Covid-19 positivo. Segui le indicazioni del tuo medico. Rimani a casa per i 14 giorni successivi alla data del contatto”.
È questo il messaggio che riceveremmo sul nostro telefono, nel caso in cui venissimo a contatto con una persona contagiata e avessimo già scaricato Immuni, l’applicazione lanciata dal governo italiano per facilitare il tracciamento dei contagi da coronavirus. A scovare il messaggio di testo tra le righe del codice sorgente, reso pubblico sulla piattaforma Github alla fine di maggio, è stato l’avvocato ed esperto informatico Enrico Ferraris. Ma non è il solo ad aver setacciato in lungo e largo le caratteristiche dell’applicazione sviluppata dalla milanese Bending Spoons.
Quando il governo Conte ha annunciato la volontà di creare un’applicazione per il contact tracing, in parecchi hanno sollevato dubbi in tema di privacy. Anche grazie alle pressioni degli esperti del settore, e diversamente da altri paesi europei, l’esecutivo italiano alla fine ha puntato su un’applicazione basata su un sistema di raccolta dati decentralizzato. Immuni, infatti, conserva i dati degli utenti solo sui cellulari, e li condivide con un server di Sogei, società controllata al 100% dal Ministero delle Finanze. E c’è una data importante da tenere a mente, il 31 dicembre 2020, quando tutti i dati – ha assicurato il governo – verranno cancellati.
Le criticità di Immuni non sembrano essere più legate alle minacce per la privacy, legittime in quei paesi dove la raccolta dei dati è stata appaltata a soggetti privati. A sollevare perplessità sarebbe piuttosto la sua effettiva capacità di facilitare il tracciamento dei contagi in un paese come l’Italia dove la decentralizzazione della sanità a favore delle regioni ha dato loro particolare autonomia, a cominciare dalle politiche sui tamponi.
Non è ancora chiaro, infatti, quali saranno i tempi che intercorrono dalla notifica di probabile contagio alla chiamata dell’Asl di competenza per effettuare il tampone. Nell’attesa la persona si dovrà mettere in autoisolamento. Come fanno notare Riccardo Berti, Alessandro Longo e Simone Zanetti su Agenda Digitale, anche il fatto che l’utente debba comunicare di aver ricevuto la notifica al medico curante non è ottimale: denota che non c’è una integrazione tra Immuni e il sistema sanitario.
E così, nonostante i mesi trascorsi e i 74 esperti della task force, si è venuta a creare una situazione in cui su 20 regioni, solo 4 hanno deciso di partecipare alla sperimentazione dell’app avviata l’8 giugno: Liguria, Abruzzo, Marche e Puglia. Secondo gli ultimi dati rilasciati dal Ministero dell’Innovazione, a dieci giorni dalla pubblicazione sugli store Apple e Android, l’app Immuni è stata scaricata da 2,2 milioni di persone. Ma il dato fa riferimento ai download in tutta Italia, mentre non è noto il numero di utenti attivi per regione, che invece è rilevante per capire la distribuzione sul territorio delle persone che hanno installato l’applicazione sui propri smartphone.
Il numero attuale di utenti è ancora molto lontano dalla soglia del 60%, che era stata indicata da alcuni ricercatori di Oxford come soglia minima per consentire il corretto funzionamento dell’app. Gli stessi ricercatori, però, hanno poi precisato alla rivista del Mit che il loro lavoro “è stato profondamente equivocato”. Lo studio afferma, infatti, che “se l’80% degli utilizzatori di smartphone scaricasse la app, una percentuale che corrisponde appunto al 60% della popolazione generale, lo strumento sarebbe sufficiente da solo a fermare l’epidemia, senza altre forme di intervento, come il contact tracing ‘manuale’ o il distanziamento sociale”.
In un contesto in cui sono previste altre modalità di tracciamento non è necessario, dunque, che il 60% della popolazione italiana scarichi l’applicazione. Ma alcuni sondaggi rilevano che la percentuale di persone favorevoli a Immuni è decisamente più bassa. Sulla base di un sondaggio dell’università Cattolica di Cremona, se il 40% si dichiara disposto a scaricarla, un restante 30% dice di no e un altro 30% si colloca tra gli indecisi. Numeri più scoraggianti quelli emersi dall’indagine di Emg Acqua: soltanto il 16% si dichiara certo di voler installare Immuni, mentre un italiano su quattro si dice contrario.
Il 9 giugno il commissario Domenico Arcuri, in commissione Affari Sociali alla Camera, ha annunciato l’avvio di una campagna di comunicazione per far conoscere meglio la app per il contact tracing agli italiani: “Probabilmente questo porterà ad un incremento del numero dei soggetti che la scaricheranno – ha detto il commissario – che condurrà certamente ad un incremento del numero di test molecolari che dovremo somministrare. Avremo la necessità di un “impiego superiore di risorse umane”, e ha ricordato infine che parte dei 5mila operatori sanitari previsti dal Decreto Rilancio saranno destinati proprio a questa funzione.
Che si stia delineando, nella fase 3, il sistema delle tre T (testare, tracciare, trattare)? Di certo i dubbi sull’efficacia di Immuni sono ancora molti e, nell’attesa, le Regioni hanno deciso di procedere in maniera autonoma – l’Università Cattolica di Milano, durante l’emergenza covid, ha contato 89 app a scopo sanitario in 17 regioni – non agevolando l’azione del governo centrale. “In settanta giorni non sviluppa un’App nemmeno Dio. Nemmeno un colosso come Google riuscirebbe a mettere in campo un’applicazione come la nostra”, ha dichiarato la ministra dell’Innovazione Paola Pisano al quotidiano Il Messaggero, che ha ribadito come non ci sia stato alcun ritardo nello sviluppo di Immuni.