Il fotoreporter freelance Fabio Polenghi è stato infatti ucciso a Bangkok il 19 maggio 2010, esattamente dieci anni fa: lo ha colpito al cuore un proiettile dell’esercito tailandese, mentre seguiva la fuga dei manifestanti nel giorno dell’assalto finale alle “camicie rosse”, in gran parte provenienti dal nordest rurale, che da due mesi occupavano il centro della capitale chiedendo nuove elezioni. Lo stesso giorno del 1987 era stato ucciso Almerigo Grilz, colpito alla nuca da un cecchino mentre filmava la ritirata dei guerriglieri della Renamo, respinti dai governativi, a Caia in Mozambico. E il 24 maggio 2014 ha perso la vita in Ucraina un altro fotoreporter freelance, Andrea Rocchelli, raggiunto da una raffica di colpi di mortaio vicino a Sloviansk, nell’Ucraina Orientale, mentre documentava le condizioni dei civili intrappolati durante il conflitto del Donbass fra milizie filorusse da una parte ed esercito e Guardia nazionale ucraini, dall’altra. Andrea aveva solo 30 anni. Con lui morì anche Andrej Mironov, giornalista e attivista politico russo, mentre un fotoreporter francese, William Roguelon, rimase gravemente ferito.
Vicende personali del tutto diverse, le loro, ma accomunate da una stessa passione, quella di fare i giornalisti in prima linea. Tutti e tre indipendenti o freelance, senza il sostegno di una forte testata alle spalle, ma abituati a muoversi con agilità e competenza da un fronte caldo all’altro tra i conflitti bellici o sociali in atto nel mondo.
Le loro storie, insieme a quelle di altri 27 giornalisti uccisi dalle mafie, dal terrorismo o dai conflitti all’estero, sono raccolte nel sito Cercavano la Verità di Ossigeno per l’Informazione e messo online in una data non casuale: la Giornata Mondiale per la Libertà di Stampa che si celebra ogni anno il 3 maggio, su iniziativa dell’Unesco. Ad inaugurare per prima questa forma di memoria collettiva era stata l’Unione Nazionale Cronisti Italiani allora presieduta da Guido Columba, che celebrò il 3 maggio 2008, in Campidoglio a Roma, la prima Giornata della memoria dei giornalisti uccisi da mafie e terrorismo, divenuta annuale da allora, e pubblicò un libro con lo stesso titolo. Ma ricordarle, queste storie personali che da allora sono divenute 30, non è semplicemente conformarsi ai rituali della memoria: é mettere in atto una difesa attiva del diritto-dovere di informare. E sostenere la necessità di proteggere meglio chi rischia la vita per farlo. Tra questi 30 colleghi, ben undici sono stati uccisi in Italia, patria del diritto ma teatro delle tragedie degli “anni di piombo” e tuttora ostaggio della mafia, anche se in certe zone più che in altre. E molti, uccisi sia in Italia che all’estero, erano freelance, senza assicurazioni e protezioni. Questi giornalisti non se la sono “andata a cercare”: hanno rischiato e perso la vita per il diritto-dovere di informare, di far sapere anche le verità scomode per mafiosi, potenti e parti belligeranti.
Fabio Polenghi, nato a Monza nel 1962, apparteneva ad una generazione che aveva lasciato alle spalle i traumi italiani della mafia e del terrorismo, e si apriva al mondo della globalizzazione. Dopo i primi 10-15 anni di lavoro per le grandi riviste di moda, tra Londra e Parigi, era prevalsa in lui la voglia di raccontare realtà più complesse, umane e sociali, coltivando la parallela passione per il reportage. Dal Kosovo al Brasile, il Sud Africa, la Cambogia, il Myanmar, passando per il Kenia, Sierra Leone, Messico, Honduras, Cuba, Cina, Giappone, Corea, Nepal, India. Non era un uomo dallo scatto mordi-e-fuggi, Fabio, voleva essere parte di ciò che testimoniava e entrare in empatia con i suoi soggetti, nella speranza di dare così anche un contributo per un mondo migliore. «La mia volontà è legata soprattutto all’amore e al rispetto che porto per l’uomo in generale, ed alla capacità che sento di avere di aiutare quanti ne abbiano bisogno», scriveva in un curriculum del 2008 in cui si candidava a lavorare con qualche Ong nella cooperazione internazionale, proprio in forza della sua esperienza di fotografo attento a cercare la sintonia con le persone che aveva ritratto in decine di Paesi.
La mia volontà è legata soprattutto all’amore e al rispetto che porto per l’uomo in generale, ed alla capacità che sento di avere di aiutare quanti ne abbiano bisogno.
Fabio morì a soli 48 anni, colpito al cuore da un proiettile che lo aveva raggiunto alla schiena, mentre fuggiva insieme ai manifestanti. L’esercito continuò a negare di avere mai colpito civili, ma il 29 maggio 2013 la sentenza di un processo penale, per il quale si era tenacemente battuta la sorella Elisabetta, stabilì invece che Fabio era stato ucciso dai militari, pur senza individuare responsabilità personali. A farlo avrebbe forse potuto essere un altro processo, ma Elisabetta sarebbe morta per tumore nemmeno un anno dopo, a Milano. Nel 2013 aveva pubblicato un libro a Bangkok – dove Fabio era ormai un nome noto per tanti, sia per come era morto sia per battaglia della sorella – in cui aveva raccolto gli ultimi scatti trovati nel computer del fratello. Ma i veri ultimi scatti erano nella macchina fotografica che Fabio aveva con sé quanto fu ucciso, e che qualcuno gli portò via quando era riverso e insanguinato sull’asfalto, il casco blu da motociclista con la scritta Press ancora in testa.
Il libro si intitolava Bangkok Last Pictures 2010 e mostra in copertina il logo RFP, Reporter for Passion. Della tragica morte di Fabio, ben presto quasi dimenticato in Italia, si era occupata nel 2011 la BBC, con il documentario Thailand – Giustice under Fire del giornalista Fergan Keane e del producer Marc Alden. Il documentario illustra il contesto in cui la tragedia sua e di altre 90 vittime si è consumata, mettendo in primo piano la sorella Elisabetta nella sua ricerca di verità e giustizia.
Ad Andrea Rocchelli, di cui già si è parlato su queste pagine, ha dedicato la storia di copertina l’ultimo numero del Venerdì di Repubblica, con un articolo di Mario Calabresi che rinvia ad una serie di podcast intitolati “La volpe scapigliata”, il nome che Andy aveva ricevuto da boyscout.
Resta invece poco conosciuta la storia di Almerigo Grilz, ucciso 33 anni anni fa in Mozambico. Nato a Trieste, Grilz aveva militato ai vertici del Fronte della Gioventù e nel Movimento Sociale Destra Nazionale, prima di cominciare, alla fine degli anni Settanta, a recarsi sui fronti di guerra. Da Afghanistan, Libano, Etiopia, Cambogia, Thailandia, Filippine, Angola, realizzava resoconti rilanciati da Cbs, France 3, Nbc, Panorama e Tg1. «Why not?, perché no, usava dire Almerigo nelle situazioni più impensabili», ha ricordato in questi giorni Fausto Biloslavo. «Why not divenne un motto, che assieme a Gian Micalessin ci portò a viaggiare in mezzo mondo raccontando la cosiddetta pace degli anni Ottanta, ovvero guerre terribili e spesso dimenticate, ultimi bagliori dello scontro senza quartiere fra le superpotenze».
«Forse ancora oggi Grilz è un caduto sul fronte dell’informazione di serie B – ha osservato Biloslavo in un ricordo scritto per il sito giornalisti uccisi.it – o comunque una vittima sopportata a denti stretti dalle istituzioni della casta giornalistica e sempre trattata con la puzza sotto il naso, se non addirittura ignorata». Su una delle lapidi bianche del memorial per i giornalisti uccisi di Bayeux, la prima cittadina francese liberata dagli alleati dopo lo sbarco in Normandia, il nome di Grilz figura invece tra gli oltre 2000 morti dal 1944 ad oggi e incisi nel marmo. «A Bayeux lo ricordano – conclude – come tutte le altre vittime sul fronte dell’informazione senza chiedersi come la pensava, se fosse di destra o di sinistra».
Maggio il mese nero per i giornalisti uccisi, dicevamo all’inizio. Gli altri caduti sul campo della libertà di informazione sono stati Cosimo Cristina, Peppino Impastato, Walter Tobagi e Guido Puletti, quest’ultimo caduto in in Bosnia il 29 maggio 1993.