Ciò che a volte rende sopportabile l’esistenza e nel medesimo istante rosicchia la vita dall’interno trasformandola in facticius, in costruzione artificiosa, illusoria, della mente, è il pensiero magico. E questo breve (o lungo) sonno imaginoso accomuna i bambini e i vecchi. Molto anziana è la celebre giornalista Elsa Brecht – arrivata in Nebraska dalla Germania e diventata nel corso dei decenni la regina di Georgetown, quartiere elegante di Washington D.C. – la cui intelligenza viene offuscata dalla comparsa di Ulrich Mott, anch’egli di origine tedesca, una figura dalla seducente e allucinata affabulazione autocelebrativa, un polimorfo perverso che edifica ininterrottamente, come avviene nell’infanzia, vite parallele, invenzioni spericolate, impossibili orizzonti di gloria capaci di riscattare una realtà grigia e inutile.
Chi è Ulrich Mott? E’ il sedicente Brigadiere delle forze speciali irachene che sfoggia oppure no, a seconda delle occasioni, una benda nera da eroe di guerra sull’occhio destro, e anche la guida esaltata dei gruppi di elettori negli uffici del Congresso, il millantatore che trafuga i pass dei portaborse per introdursi nei party dei politici, un piccolo parassita straniero alla ricerca del sogno americano, della grande occasione. E l’occasione arriva, grazie all’incontro con Elsa, Signora raffinata dalle molte conoscenze. La liquida malinconia originata dal tempo trascorso, dagli affetti perduti, da un corpo che s’incurva mentre le dita s’irrigidiscono, traluce nel vetro azzurro dello sguardo. Sarà proprio la cognizione del tempo perduto che avvince Elsa a permettere all’istinto predatorio di Ulrich di penetrare nella vita della donna fino a impadronirsene. Non ascolterà nessuno, neppure la figlia Amanda, raziocinante e disperata nel tentativo di salvare la madre.
Christoph Waltz, alla sua prima regia, realizza un’opera sarcastica suddividendola in capitoli dove la vicenda si muove in maniera ellittica, passando da un piano temporale all’altro, riproponendo i temi in punti diversi come in una partitura musicale per arrivare a un progressivo svelamento della realtà, dopo aver condotto lo spettatore a vagare in un labirinto di menzogne così spudorate da sembrare plausibili. La causticità della storia consiste nel mostrare i vaneggiamenti di Ulrich sostanzialmente simili a quelli dei miliardari, dei finanzieri, dei notabili, dei primi ministri, delle organizzazioni fondamentaliste; la macchina celibe del suo Eminent Persons Group non è che la parodia delle innumerevoli Onlus che organizzano conferenze e spostano capitali. Mott è il riflesso del mondo di cui desidera far parte, per non essere più deriso, per non sentirsi mai più ai margini di una società in cui vive come un corpo estraneo, come premuroso marito/maggiordomo di un’anziana giornalista.
Dopo essere stato cacciato dalla moglie a causa della sua omosessualità, Ulrich vivrà per due anni in un pulcioso motel allungato ai bordi di una strada qualsiasi, il Coconut Grove Hotel, lavorando come custode e facchino. Ma in questo lungo intervallo costruisce una babelica mitologia personale, inviando centinaia di mail a Elsa e al Congresso, scritte nella stanzuccia disadorna verde marcio, per descrivere le sue immaginarie trattative di pace con Al-Qaeda e gli onori che gli vengono tributati.
Il ritorno di Mott a Georgetown fa cadere lentamente gli eventi in un cunicolo tragico. Elsa riceve per posta le dichiarazioni dei redditi di Ulrich dei due anni precedenti e lo schernisce con asprezza. L’uomo – dentro le luci gelide verdi e azzurre che illuminano la vicenda dall’inizio alla fine sottolineando un paradossale iperrealismo -, con l’espressione pietrificata nella follia del Joker di Robinson, cancella per mezzo di un delitto la crepa che l’ennesima irrisione ha aperto nella sua minuziosa e parossistica riprogettazione del reale.
Peccato che una fra le opere più originali della stagione 2019-20, sia finita su una piattaforma streaming. L’augurio è che possa essere proposta nelle varie arene cinema estive che apriranno a breve.