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Clint Eastwood, novant’anni d’America

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Esiste un’America prima di Clint Eastwood e una dopo, radicalmente diversa. Il novantenne Clint, infatti, è molto più di un semplice attore e regista. Se vogliamo, è una delle coscienze critiche di quel paese sconfinato e intriso di contraddizioni che oggi, dopo l’assassinio di George Floyd ad opera della solita frangia razzista della polizia, si trova in preda a una mezza guerra civile.

Novant’anni sono volati, non certo senza lasciare tracce, specie se si considera la grandezza di molte delle sue interpretazioni e la forza espressiva delle sue pellicole da regista. Basti pensare alla Trilogia del dollaro, in cui l’epopea americana si mescola con il genio italico targato Sergio Leone, dando vita a capolavori in cui, per la prima volta, anche l’epica del selvaggio West viene messa in discussione e cominciano a intravedersi quegli elementi che una pellicola di marca sessantottina come “Soldato blu” avrebbe portato alla luce. Diciamo che Sergio Leone, entrando nelle viscere del mito della frontiera, ha contribuito a dissacrarlo, ancor prima della chiave comica dei Trinità targati E.B. Clucher. E Eastwood, americano al midollo, repubblicano, destroide, intransigente, legato indissolubilmente al ruolo dell’ispettore Callaghan, emblema dell’America che non perdona neanche le sue debolezze, Eastwood è stato il protagonista ideale di una narrazione che ha avuto il merito di prendere il personaggio più impensabile per raggiungere lo scopo opposto a quello che aveva avuto, fino a quel momento, il genere western. Non l’epopea ma la verità. Non l’epica strumentale ma il racconto corale della genesi di una Nazione straordinariamente affascinante ma, ahinoi, costantemente in guerra con se stessa.

Clint Eastwood, figura rude, tosta, se vogliamo persino barbara nella sua essenza, ci restituisce l’immagine dell’America come è, lontana dall’immaginario collettivo, dalle buone intenzioni di chi pigia troppo sul pedale della retorica e di chi si illude che un paese grande come un continente sia una propaggine di Los Angeles o di New York.
L’America di Eastwood è quella di “Million dollar baby”, il gioiello che ha lanciato l’ottima Scarlett Johansson, in cui si narra la vicenda tragica di una giovane pugilessa e sullo sfondo emergono progressivamente i mali e le devastazioni di una società in decadenza.
Clint Eastwood, antiretorico e feroce nella descrizione di un mondo complesso e controverso, ha cambiato per sempre il nostro immaginario. E, in fondo, non è un caso che il dissacratore più aspro d’America si sia sposato alla perfezione con il regista che ha saputo affrescare il secolo americano con rara maestria, non concedendo alcuno spazio ai laudatores e alle tifoserie di questo o quell’idolo di cartone.
Novant’anni di Eastwood, novant’anni d’America, novant’anni di noi. Tutto è cambiato da allora, tranne il desiderio di costruire nuovi immaginari e inventarsi un futuro. Ciò in cui Eastwood è sempre stato un maestro, senza mai venir meno ai suoi princìpi, assumendo spesso posizioni scomode, infrangendo gli schemi, restando solo e infischiandosene, proprio come i suoi pistoleri velocissimi che in fondo al cuore possiedono ancora un briciolo di umanità.

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