Passata la fase acuta della pandemia è possibile riflettere su ciò che stiamo vivendo con più lucidità. Abbiamo chiesto alla giornalista d’inchiesta Sabrina Giannini di darci la sua opinione. Nel 2005 Giannini si era già occupata dell’ influenza aviaria.
Tra l’aviaria di allora e la situazione che viviamo oggi è cambiato qualcosa?
«Sì. Che la pandemia annunciata in passato quando comparve l’aviaria, questa volta è arrivata sul serio con il Covid-19. Nel 2005 realizzai un servizio dedicato all’aviaria in Cina, ero stata allora una tra le poche giornaliste a definire la comparsa del virus un pericolo, ma non certamente una pandemia. Quell’idea di pandemia però, sbandierata al mondo, fece guadagnare cifre astronomiche alla casa farmaceutica “Roche” per un suo farmaco “miracoloso” il Tamiflu, acquistato dai governi di tutta la Terra in preda alla psicosi da influenza. Tre miliardi di euro spesi per un farmaco mai usato».
È per questo che nella prima serata del suo programma su Rai3 «Indovina chi viene a cena?» ha ricordato questo precedente?
«Sì, perché la situazione di allora può spiegare, in parte, cosa non ha funzionato in quest’occasione. Parlo dei ritardi nelle misure di prevenzione, dell’impreparazione sanitaria sull’argomento e delle mosse improvvisate, talvolta deleterie, messe in atto per contrastare la diffusione del Covid-19».
Cosa ha raccontato ai telespettatori?
«Sono partita mostrando i mercati cinesi dove spesso scorre tra i banchi una miscela diabolica di sangue e feci animali e dove i virus possono annidarsi con estrema facilità grazie alla promiscuità tra avicoli come galline, polli e anatre. Nel 2005, quando realizzai i primi servizi giornalistici in quelle zone del mondo la situazione “virus” era già esplosiva. La “Roche” seppe cavalcare una minaccia reale, ossia il possibile passaggio di un Corona virus all’uomo e nei primi nove mesi del 2005 riuscì a far aumentare il suo fatturato del 16%».
Come fece la «Roche» a convincere il pianeta che era in atto una pandemia, se una decisione tale non era stata diramata ufficialmente (come è stato fatto questa volta) dall’Organizzazione mondiale della sanità?
«Approfittando del sentimento della paura. Ossia, che il virus potesse diventare letale e mi duole dirlo grazie anche a un sistema dell’informazione poco attento. I giornali di tutto il mondo, infatti, si limitarono a riportare i comunicati stampa diramati dalla casa farmaceutica nei quali si stimava una mortalità pari a 150 milioni di persone nel mondo. Quella però non fu una pandemia, certamente fu una bufala. L’Oms aveva ammonito che “l’aviaria sarebbe potuta diventare pericolosa, nel caso vi fosse stato un salto di specie animale-uomo”. Un fatto che non avvenne me che bastò a chi già aveva deciso di trarne profitto. Una fake che determinò un esborso inutile di soldi da parte di tanti governi e, fatto ancor più grave oggi, che ha causato la morte di tante persone in questi mesi. Decessi che probabilmente si sarebbero potuti evitare».
Perché afferma questo?
«Un detto ricorda che gridare “al lupo al lupo” quando il lupo non c’è può essere pericoloso. Il Covid-19 è il lupo. Quando è comparso ed è stata annunciata la sua pericolosità in pochi hanno creduto che si trattasse di un allarme vero. I governi del mondo memori dell’esperienza del 2005, s’aspettavano un’altra aviaria e malgrado da allora si fosse deciso di predisporre dei piani governativi anti-pandemia tutti o quasi i governi mondiali hanno preso sotto gamba l’allarme lanciato dalla Cina, trovandosi impreparati. Una sottovalutazione della pericolosità, alla luce dei decessi, imperdonabile».
Se tutti sapevano perché non sono state messe in atto le strategie anti pandemia diramate in tempo utile dall’Oms?
«Bella domanda. Le linee giuda c’erano e anche l’Italia aveva le sue; solo la Germania ha deciso di metterle in atto. Eppure, era noto a tutti che prima o poi qualcosa sarebbe successo. Pensate che lo scorso ottobre Bill Gates – tra i maggiori finanziatori dell’Oms – in un incontro dedicato al tema dei Corona virus e mentre l’epidemia già colpiva la città di Wuhan, allertava il mondo intero sul fatto che i Corona virus in circolazione erano tanti e che, prima o poi, uno di questi avrebbe certamente fatto il salto dall’animale all’uomo. Non saprei spiegare perché i piani anti-pandemia non siano stati messi in atto dai governi mondiali com’era giusto e prevedibile fare. Questa è una domanda alla quale speriamo che prima o poi qualcuno debba essere chiamato a rispondere».
Il Covid-19 o altri virus potrebbero essere una costante del nostro futuro?
«Molto probabilmente sì. Fortunatamente la maggior parte di questi virus rimane spesso circoscritto senza fare il pericoloso salto di specie. Ma l’elenco è davvero lungo. Uno di questi e molto aggressivo girava già nel 2018 in Malesia ed era più letale del Covid, fortunatamente era meno contagioso. Il tasso di mortalità del Covid-19 oscilla tra il 3.2 e il 5.7%. Ha toccato il 10% in Lombardia, poco meno in Emilia e in Piemonte. Sul perché nella nostra Penisola vi sia stata questa discrasia di dati è un’altra domanda alla quale un giorno speriamo possa essere data una risposta».
Però è concreta la probabilità di poter incappare in futuro in un virus simile al Covid…
«Come ricorda il rapporto dell’Onu (Unep), in questi ultimi anni è stato osservato un aumento esponenziale di malattie emergenti. Il 75% di queste sono zoonotiche (derivanti da animali come gli insetti, le zecche, le zanzare) e trasmissibili all’uomo. Tra queste ci sono anche virus, batteri, funghi».
Perché è più facile di prima ammalarsi di virus nuovi?
«Perché gli esseri umani sconfinano dalle proprie terre invadendone di nuove. Perché si avvicinano sempre più alle aree abitate da animali selvatici. L’uomo sta erodendo un patrimonio ambientale delicatissimo, entra in contatto con specie animali nelle quali “abitano” virus diversi da quelli che vivono nel genere umano: dunque siamo esposti a rischi enormi. L’abitudine umana di occupare spazi sempre nuovi riduce anche le distanze che prima c’erano tra gli esseri umani e gli animali selvatici. L’avvicinamento tra esseri umani, animali selvatici e allevamenti intensivi, alcuni dedicati alla produzione massiva di carne, di latte e formaggi, oggi è uno dei motivi per cui è in aumento la diffusione di nuovi virus. Questa catena di produzione alimentare diventa un vero e proprio “serbatoio di virus” nel quale uomini e donne lavorano a stretto contatto con maiali, dromedari, capre, pecore e dove trovano casa anche pipistrelli e rettili. Dunque è facile il passaggio di microrganismi e di malattie. Pensate a quante persone sono morte per Hiv (Aids) per via del passaggio del virus dalla scimmia all’uomo. Solo oggi le persone contagiate da Hiv nel mondo sono 37,9 milioni».
Il problema dunque non è imputabile agli animali selvatici ma a come noi stiamo gestendo il rapporto con la natura…
«Il virus è un boomerang e se lo lanci ti torna addosso. Stiamo disboscando foreste, aumentando la produzione di carne con allevamenti intensivi; stiamo ampliando gli insediamenti urbani e innescando una convivenza innaturale tra animali diversi. Stiamo sfidando la biodiversità e mettendo freni pericolosi al ciclo naturale delle cose, provocando così una promiscuità innaturale e forzata all’eco-sistema. Proseguendo di questo passo non potremo lamentarci in futuro. Siamo noi, esseri umani, a far proliferare le malattie».
Il Covid non è una bufala. Perché qualcuno ancora sostiene questa tesi?
«No, non è una bufala e non è un complotto. Certamente è più facile credere o far credere che lo sia, piuttosto che dover cambiare il proprio stile di vita. Pensate cosa potrebbe voler dire fermare le economie mondiali (basta vedere il “liberi tutti” permesso in questi giorni in nome dell’economia) o dover ammettere che siamo noi la con-causa di ciò che sta capitando al mondo. Quante persone sono consapevoli (davvero) oggi delle loro pessime abitudini? E quante, tra queste, sarebbero davvero disposte a modificarle per il bene comune? Non credo certamente la massa. Quante persone oggi hanno compreso davvero, “grazie” al virus, di essere una parte infinitesimale e non la parte “predominante” di un sistema? Un micro-organismo ha messo in ginocchio il mondo intero».
Non è facile però cambiare stile di vita…
«No, non è facile. Non lo è stato neanche per me. Eppure ho deciso di farlo. Non era facile neanche pensare di poter fare la raccolta differenziata sino a pochi anni fa. Non era facile pensare che un giorno saremmo riusciti a vietare il fumo nei luoghi pubblici. Una scelta oggi apprezzata anche dai fumatori. Non era facile parlare dell’olio di palma. Dopo le mie inchieste tante grandi multinazionali – non tutte – hanno deciso di cambiare rotta, scegliendo di non utilizzarlo più. Fare attenzione alla propria alimentazione e alla propria salute è importante. Capire cosa si compra o si sta per mangiare è facile: basta leggere le etichette. Chiedersi cosa c’è dietro ogni nostro acquisto è importante. Fare scelte etiche (e sane) è già un inizio. Certamente è più facile far prevalere il menefreghismo o scegliere le comodità, ancora di più sbandierare una inconsapevole ignoranza. Insomma è più facile non dover scegliere tra Gesù e Barabba, se altri sceglieranno al posto nostro».
Da tutte queste riflessioni è nato un libro, è così?
«Il lavoro d’inchiesta che ho fatto in questi anni è contenuto nel libro La rivoluzione nel piatto (uscito per Sperling & Kupfer, ndr). Un volume che cerca di far luce sulle frodi alimentari, sull’abuso di antibiotici nella produzione di carne e di pesticidi nelle colture agricole. Affronta alcune prassi produttive che arrecano danni al corpo umano. Un libro, che vuol far emergere alcune verità sugli alimenti, additivi, coloranti; insomma è un libro che cerca di scavare nella catena della produzione alimentare che poi arriva sulle nostre tavole».
Un lavoro non facile quando di mezzo ci sono le grandi multinazionali…
«Le lobby che difendono le aziende e le multinazionali sono tante e anche una certa politica spesso avvalla verità scientifiche discutibili per salvaguardare i propri interessi; così facendo però queste multinazionali mettono quotidianamente nei nostri piatti sostanze rischiose per la salute. Nel libro racconto queste storie. Credo sia sempre meglio sapere. Poi ognuno è libero di fare le proprie scelte, il mio libro è solo uno strumento per renderle almeno consapevoli».