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L’IS può colpire ancora, la minaccia pesa su un mondo distratto

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[Traduzione a cura di Rosamaria Castrovinci dall’articolo originale di Aviva Guttmann pubblicato su The Conversation]

All’ombra del coronavirus, minacce future per il mondo potrebbero nascondersi e rafforzarsi. Tra queste vi è la probabile ricomparsa dello Stato Islamico.

Nelle scorse settimane l’IS ha portato avanti una serie di attacchi contro le forze di sicurezza in Iraq e in diverse aree della Siria. Si possono riscontrare delle somiglianze impressionanti tra gli avvenimenti attuali e quelli che ebbero luogo nel 2013-14, quando l’IS si era impadronito di vasti territori in Iraq e in Siria.

Il pericolo di un ritorno dell’IS sta crescendo e i Governi delle varie nazioni potrebbero essere sul punto di ripetere l’errore di non dargli la giusta importanza e reagire, così, troppo tardi.

Sulla base delle mie ricerche (ancora in corso) per indagare sul perché l’ascesa dell’IS nel 2013 sia stata una sorpresa per i Governi europei, ho identificato i sette parallelismi più vistosi tra il 2013 e oggi.

Dichiarato morto troppo presto

Dopo la morte di Osama Bin Laden nel 2011, le varie diramazioni di Al-Qaida in Afganistan e Pakistan, Siria e Iraq, Yemen, Corno d’Africa, regione del Sahel e Magreb, si sono organizzate più localmente. I leader rimasti hanno indirizzato le recriminazioni direttamente contro i rispettivi Governi locali. Al-Qaida sembrava essere sulla difensiva e sia i leader europei che quelli statunitensi auspicavano che smettesse di costituire una minaccia nazionale.

Allora come oggi potrebbe essere fuorviante sperare che l’IS sia in declino in seguito all’uccisione del suo leader Abu Bakr al-Baghdadi nell’ottobre del 2019, durante un raid delle forze speciali statunitensi. Secondo quanto emerso da Al-Qaida in Iraq, l’IS potrebbe benissimo ripresentarsi sotto la guida del suo nuovo leader, Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al-Salbi.

Il rischio di evasioni

Una delle operazioni di maggior successo dell’IS è stata, nel 2012-13, la campagna di evasione dal carcere, conosciuta con il nome Breaking the Walls, per liberare i combattenti veterani. Questa strategia è stata rilevante per la lunga durata e il livello di organizzazione e ha incluso la grande evasione da Abu Ghraib in Iraq, nel luglio del 2013, da dove fuggirono oltre 500 prigionieri.

Le prigioni dell’IS nel Nord della Siria sono attualmente gestite dalle Forze Democratiche Siriane (SDF), la principale milizia curda che ha sconfitto l’IS con il sostegno dell’Occidente. Esse hanno definito queste prigioni, sovraffollate e a corto di personale, una bomba a orologeria.

Secondo l’intelligence irachena, l’IS sta preparando una campagna d’evasione, la Break Down the Fences. Una sistematica operazione di fuga di prigionieri dal carcere simile a Breaking the Walls potrebbe dunque spianare la strada a una rinascita dell’IS in Iraq e in Siria.

Autobombe e guerriglie

Nel 2013 sono stati uccisi dall’IS oltre 8.000 iracheni, principalmente attraverso attentati kamikaze di grande impatto. Oggi l’IS sta lanciando nuovamente attacchi ribelli sempre più sofisticati in Siria e in Iraq. Questo genere di violenza potrebbe rappresentare il preludio a un ritorno militare ancora più forte dello Stato Islamico nel Nord dell’Iraq.

Concentrato in aree fuori dalla portata delle forze di sicurezza irachene e curde, l’IS si sta preparando per un ritorno costante e graduale, secondo quanto scritto in un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato a gennaio.

La stanchezza dell’Occidente

La coalizione contro l’IS ha dichiarato il gruppo sconfitto a marzo del 2019, quando è stata liberata Baghuz, l’ultima città rimasta sotto il loro controllo. Se lo Stato Islamico dovesse avere un nuovo impulso gli sforzi della coalizione saranno stati, quindi, vani. L’azione militare dovrebbe essere portata avanti, bisognerebbe rafforzare ulteriormente le milizie SDF e le forze di sicurezza irachene. Ma di certo non è ciò che speravano di fare i Governi occidentali.

Nel 2013 sia l’opinione pubblica britannica che quella statunitense erano contrarie alla guerra in Iraq, considerata un fallimento. Di conseguenza, una certa “stanchezza della guerra” e il desiderio di ritirare le forze armate dal Medio Oriente, hanno influenzato la decisione del Regno Unito a non intervenire in Siria.

I rappresentanti del mondo politico oggi sono piuttosto diffidenti nel fornire nuovamente risorse a questa lotta continua e senza fine come al gioco della talpa. La delibera non vincolante del Parlamento iracheno per espellere le truppe statunitensi dopo l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani, compiuto a gennaio dagli Stati Uniti, ha complicato ulteriormente le cose.

Un soldato iracheno e alcuni soldati statunitensi all’ospedale da campo Red Crescent – “Red Crescent” foto di United States Forces – Iraq (Inactive) licenza CC BY-NC-ND 2.0

Il rischio di un vuoto di potere in Iraq

A differenza del 2013, il divario settario fortemente polarizzato che c’era tra le due confessioni sciita e sunnita – una delle ragioni più radicate per cui l’IS riscuoteva tanto successo tra i frustrati sunniti iracheni – sembra essere svanito. Tuttavia, l’Iraq si ritrova con un Governo ancora molto fragile e un nuovo Primo ministro, Mustafa al-Kadhimi, che dovrà affrontare grandi sfide.

Per adesso il Governo sta reggendo, sebbene ci siano state ulteriori proteste come quelle iniziate ad ottobre del 2019, ma la mancanza di riforme e un’economia indebolita rischiano di destabilizzare il Paese. La ricaduta nel caos a causa di un’amministrazione  vacillante e vicina al collasso verrebbe rapidamente sfruttata dall’IS per reclutare cittadini disillusi.

Il rischio di un vuoto di potere in Siria

Tra gli elementi che hanno aiutato lo Stato Islamico ad acquisire ancora più forza nel 2013-14 c’è stata la guerra allora in corso in Siria, la quale aveva creato un vuoto di potere colmato proprio dall’IS.

Anche altri fattori hanno contribuito al successo dello Stato Islamico, quali la partenza delle truppe statunitensi dall’Iraq alla fine del 2011, e la successiva politica della Turchia. La strategia di Ankara di allentare i controlli al confine con la Siria ha di fatto permesso ai combattenti stranieri di unirsi all’IS.

Oggi la guerra civile in Siria e l’intervento di attori stranieri potrebbero facilitare una rinascita dello Stato Islamico. Il disimpegno americano dal Nord della Siria e la campagna militare turca nel Paese, iniziata nel 2019, hanno costretto le forze di sicurezza SDF a reindirizzarsi verso il Nord Est. Di conseguenza, esse dispongono di minori risorse da dedicare a quegli sforzi necessari contro la ripresa dell’IS.

All’inizio del mese di marzo 2020 è stato concluso un accordo tra Russia e Turchia che, tra le altre cose, ha stabilito di fermare i combattimenti a Idlib, nel Nord Ovest della Siria. Tuttavia, data l’importanza strategica e simbolica della città per coloro che sono coinvolti nel conflitto, gli esperti temono che l’accordo potrebbe non durare.

Nel frattempo, la redistribuzione delle forze SDF per difendere le regioni curde dall’incursione turca ha già aperto le porte all’IS per riconquistare punti d’appoggio nell’area di Deir Ezzor. Questa era l’ultima roccaforte dello Stato Islamico prima che venisse sconfitto in quel territorio, a marzo del 2019.

I combattenti stranieri e la presenza nel mondo

Negli anni 2013-14 lo Stato Islamico è stato in grado di attrarre un gran numero di combattenti stranieri, stimati all’epoca in 11.000 e provenienti da 74 Paesi.

Mentre il flusso di questi foreign fighters verso Siria e Iraq adesso si è quasi fermato, l’IS mantiene ancora attivo un forte meccanismo di propaganda. Molti gruppi in tutto il mondo hanno mantenuto affiliazioni con l’IS, per esempio in Africa Occidentale e nel Sudest asiatico, e lo Stato Islamico ha ancora la capacità di organizzare o ispirare attacchi terroristici a livello internazionale.

Alla luce di questi elementi, sembra altamente probabile che l’IS si riorganizzi, guadagnando territori e che torni a rappresentare una minaccia globale. Con l’emergenza coronavirus che in questo momento oscura la valutazione del rischio, i vari Governi non hanno prestato abbastanza attenzione a questa minaccia, né dedicato sufficienti risorse a prevenire una possibile ripresa dello Stato islamico.

Sarebbe saggio da parte della comunità internazionale imparare dall’esperienza del 2013 per fronteggiare adesso questo segnali di avvertimento. Affrontarli singolarmente è molto più fattibile e potrebbe impedire all’IS una nuova ascesa.

Da vociglobali

 

 


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