Sornione, ironico, icastico sino al più algido cinismo- ma anche riflessivo, introspettivo, visibilmente serissimo e “indaffarato”, Michel Piccoli, nel difficile mestiere di vivere quasi sino ai 95 anni: da uomo libero e degno di dirsi tale, da “Dillinger è morto” e “La grande abbuffata” di Marco Ferreri, micro.capolavori di nichilismo minimalista resi metafora di ogni alienazione dal grande Marco Ferreri al micidiale (antifamilista) “Gli occhi, la bocca” di Bellocchio; dall’ineffabilmente sovversivo “Bella di giorno” del Maestro Bunuel al più recente “Habemus papam” di Moretti, che gli valse la stima e notorietà anche da parte delle generazioni più giovani- Passando per i vari “L’amante” di Claude Sautet, “L’ultima donna” ancora di Ferrei, “Milou a maggio” di Luois Malle- oltre ai tanti Godard, Chabrol, De Oliverira, Resnais, Varda – ai quali “consegnava” con la sua sarcastica grandeur sottotono, semiseria, mai sventagliata o retorica, semmai messa in dubbio da quel suo personalissimo (dichiarato) scetticismo immune da aridità umana, dal dubbio sistemico di essere artista e cittadino latore di una fede (di una prassi) politica che volgeva, con coerente passione (mai affievolitasi) ai progetti e ideali della gauche transalpina. Con fierezza e vis-dialettica di intellettuale senza vezzi e infingimenti.
Qualità e assoluta modernità di interprete che, in prima istanza e già a metà degli anni quaranta, Michel Piccoli aveva esternato nei teatri francesi, esordendo – nel ’45- con “Celestina” di Royas e “Tobacco road” di Kirkland e Caldwell (del 1947), presto incalzati da “Androcles and the lion” di Shaw (1952), “Irene innocente” di Betti (1953), “Fedra” di Racine (1957, al Teatro Nazionale di Parigi), “Der Stellvertreter” di Hochnuth (1963). Seguiranno gli incontri con Cechov e Brook per “Il giardino dei ciliegi” del 1981, “Combattimento di negri e di cani”, entracte atro e tensivo di Koltès inscenato nel 1983 al Théatre des Amandiers di Nanterre, “Racconto d’inverno” di Shakespeare (di rientro al Nazionale di Parigi), “John Gabriel Borkman” (1993) per il neonato Teatro d’Europa, di cui fu direttore Giorgio Strehler (prima opportunità che ebbi, in prima persona, di apprezzarlo dal vivo della platea). Sino al Premio Europa per il Teatro di Taormina (aprile 2001), in cui Piccoli, coadiuvato da Emmanuelle Lafont e Klaus M. Gruber riceveva degna ovazione (al Bellini di Catania) per il suo omaggio pirandelliano titolato “A partire da I giganti della Montagna”, dove era un Mago Cotrone infastidito dall’età avanzata, ma amabilissimo e guarnito da uno strambo copricapo turcomanno.
Dal brulichio dei ruoli surreal-grotteschi a quelli più esplicitamente drammatici e intensi (imperniati per lo più sul conflitto eros\tanathos), perno del suo “strumento d’arte” (così l’attore intendeva la sua professione) era e rimane quella sottile (invisibile) memoria didattica che ogni attore “dovrebbe” imprimere alla sua presenza, sul set o in palcoscenico: il “progetto”, a suo modo dinamitardo, di “far saltare regole ed ipocrisie di convenzioni e opportunismi sociali”. Impegno totalizzante e dissidente (dei “non riconciliati”)al quale è valsa la pena dedicare, con esiti magistrali, una lunga vita di impegno civile, artistico, esistenziale.