Partiamo dal basso, dalla vicenda specifica, dalla provincia profonda dell’Italia, da Salerno. L’esame da parte della Corte Costituzionale della possibilità di mantenere l’efficacia e l’applicabilità del carcere per i giornalisti comincia lì. Il giudizio nasce dopo che l’avvocato del Sindacato Unitario giornalisti della Campania, in un processo per diffamazione a mezzo stampa dinanzi al Tribunale di Salerno nei confronti dell’ex collaboratore del “Roma” Pasquale Napolitano e del direttore Antonio Sasso, ha sollevato un’eccezione di incostituzionalità. Eccezione accolta dal giudice che ha poi presentato ricorso alla Consulta. La Corte Costituzionale sarà chiamata ad esprimersi sull’applicabilità del carcere per i giornalisti quale pena per il reato di diffamazione a mezzo stampa e l’eccezione riguarda la sua compatibilità con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo nonché con quanto stabilito dalla Costituzione Italiana agli articoli 3, 21, 25, 27 e 117. Si potrebbe dunque dire che questa battaglia campale per la libertà di stampa ha origine in un luogo del Paese per molti aspetti simbolico. La Campania conta il maggior numero di giornalisti sotto scorta, è un territorio difficile da percorrere e, ancor più, da raccontare, lotta ogni giorno contro querele temerarie, aggressioni, minacce. Anche nella storia specifica si sta parlando del carcere da applicare ad un collaboratore di un quotidiano, la prova più evidente, non giuridica ma sociale, su chi paga veramente le storture del sistema afferenti la professione giornalistica. Mentre in questi giorni ci si esercita, a diversi livelli della categoria, sul primato inerente il ricorso alla Corte e sulla dovizia di particolari con cui lo si è raccontato, succede anche altro. Per esempio che un paio di autorevoli esponenti del Governo in carica, il viceministro dell’Interno, Matteo Mauri, e il sottosegretario con delega all’editoria, Andrea Martella, vengano invitati nuovamente (è accaduto due giorni fa) a fare attenzione alla necessità di abolire dall’ordinamento italiano vigente il carcere per i giornalisti e ad approvare, contestualmente, la legge giacente in Senato contro le querele bavaglio. Un passo autonomo che il Parlamento può (e deve) fare per rendere effettiva la praticabilità della libertà di stampa e dunque della professione giornalistica in Italia, per redattori, capiservizio, direttori e anche per i collaboratori della periferia profonda, per le tante Salerno d’Italia, per tutti i Pasquale Napolitano che vengono pagati 30 euro ad articolo e che, sì, possono sbagliare ma quell’errore non può costare più caro delle estorsioni, degli omicidi e delle associazioni di stampo mafioso che, si sa, a quelle latitudini sono la cronaca quotidiana.
“Il sottosegretario Andrea Martella, che lo ricordiamo, ha la delega per l’editoria, ci ha detto di essere contrario al carcere per i giornalisti e che quella norma va abrogata. – sottolinea il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa, Giuseppe Giulietti, che ha incontrato Martella insieme al segretario della Fnsi, Raffaele Lorusso – E d’altro canto abbiamo chiesto, in altro incontro, al viceministro dell’Interno che sia prestata grande attenzione all’escalation di minacce ai cronisti che seguono la rinascita di gruppi neofascisti e neonazisti. Ci sono due colleghi sotto scorta, Paolo Berizzi e Carlo Verdelli, minacciati nella loro incolumità fisica per le inchieste su frange fasciste contrarie alla nostra Costituzione. Ma ci sono molti altri cronisti nel mirino di questi squadristi, li abbiamo ricordati, un elenco troppo lungo che ci obbliga ad intervenire e a sollecitare la convocazione dell’Osservatorio del Ministero sui giornalisti minacciati”.
L’esame della Corte Costituzionale circa l’applicabilità del carcere ai giornalisti cade in questo clima, in questo tipo di Paese. E si aggiunge ad una coltre di difficoltà che rendono, a tratti, impraticabile la professione giornalistica, il che non è un problema del sindacato, della Federazione della Stampa o del singolo giornalista, bensì è un vulnus della nostra democrazia. Ripartiamo da questo concetto minimale alla vigilia dell’udienza sul caso Salerno.