La liberazione di Silvia Romano, la gioia dell’arrivo in Italia, l’emozione dell’incontro con i genitori e l’accoglienza affettuosa della sua città di residenza, sono stati accompagnati da commenti, approfondimenti e critiche alla conversione alla religione islamica, all’abito indossato all’arrivo, simbolo della adesione ai principi dell’Islam. Commenti di odio che hanno reso necessario in queste ore l’intervento della Procura di Milano per minacce aggravate.
Sulla vicenda, risultano particolarmente efficaci le parole di Padre Albanese, missionario comboniano e profondo conoscitore dei paesi del Corno d’Africa: “Prima di stupirsi ci si dovrebbe rendere conto di che cosa significhi finire nelle mani di Al Shabaab. Chi conosce la condizione spirituale e mentale di questa ragazza? Cosa sappiamo di cosa le è accaduto?”.
La possibilità di un’informazione completa su eventi complessi e ancora in corso di chiarimento – un’informazione che, tra l’altro, sappia spiegare a lettori e telespettatori non solo la conversione di Silvia Romano, ma anche il contesto in cui è avvenuta, la presenza del radicalismo islamico in quell’area e la ferocia di Al-Shabaab, le condizioni generali della Somalia e la sua progressiva radicalizzazione – si collega al rispetto dei principi deontologici che costituiscono l’essenza stessa della professione giornalistica. Accuratezza e correttezza dell’informazione e rispetto della verità sostanziale dei fatti: principi che la Carta di Roma ha fatto propri e che sono argini alla propagazione di odio, falsità e discriminazione.
Il senso stesso della mediazione giornalistica è proprio questo: fornire ai cittadini un quadro completo dei fatti e dei contesti in modo che possano formarsi un’opinione autonoma.
Altrimenti, si rischia di proiettare su una donna, reduce da un sequestro durato 18 mesi, l’immagine distorta di un paese che percepisce la presenza dei musulmani tre volte in più rispetto a quella reale. Di un paese che pensa che la maggior parte della presenza straniera in Italia professi la religione islamica (più della metà della popolazione straniera in Italia professa la religione cristiana). Di un paese in cui i motivi più frequenti di diffusione di odio online sono quelli religiosi (antisemitismo, islamofobia, cristianofobia).
Ci sarà – forse – un momento in cui Silvia Romano racconterà la tragica esperienza del sequestro e – forse anche – la scelta della conversione.
Ci sarà un momento, come ci ricorda la scrittrice italo-somala Kaha Mohammed Aden, in cui ci sarà modo di raccontare la condizione delle donne somale, che dal 1991 hanno cambiato il proprio modo di vestirsi: “Gli uomini delle milizie dei clan, di qualunque clan, hanno assunto un ruolo centrale ovunque. È a questo punto, quando eliminare l’altro per difesa o per attacco è diventato il collante e la bussola dei clan, che la violenza su larga scala contro le donne diventa la norma. Gli uomini delle milizie, forti del loro ruolo, si prendono la libertà di stuprare impunemente e le donne si coprono, cambiano d’abito” (“Cambio d’abito”, in Africa e Mediterraneo, n. 86, 2017).
È la stessa Kaha Aden che ricorda in un intervento, nel 2014, della direttrice dell’Unione delle donne Afgane, Soraya Parlinka, che lega il cambiamento di abito delle donne in Afghanistan all’aumento di stupri, di rapimenti e violenze nei confronti delle donne. Il crimine è in aumento e le donne si sentono più sicure con il burqa. “Sembra che le donne abbiano proposto uno scambio: la loro libertà in cambio di un poco di sicurezza”, prosegue Kaha Aden, “Un tipo di scambio, tra sicurezza e libertà, che pone problemi su cui si dovrebbe interrogare la politica contemporanea di tutto il mondo. Il caso e le circostanze di Silvia Romano non le conosco bisognerà chiedere a lei se ne ha il desiderio di raccontare le sue motivazioni”.
Quindi invece di “parlare di noi”, come suggerisce Kaha Aden, attendiamo di parlare con Silvia. Parliamo con lei.