Jihad è un concetto ancora vago nella mente degli italiani, molti dei quali non saprebbero indicare Kenya e Somalia su una cartina geografica o riassumerne l’esperienza coloniale, né spiegare il principio di libertà ed il rispetto per ogni credo formulati nella nostra Costituzione. Eppure hanno un’impellente necessità di dire chi è Silvia Romano. Magari scrivono sui social di essere laureati all’Università della Vita, si consegnano a leader che baciano rosari e pregano in diretta tv, ma il loro giudizio sul velo di Romano, 25 anni di cui uno e mezzo trascorso lontano da tutto, arriva con nonchalance prima ancora che lei possa abbracciare la famiglia. Chi la considera una traditrice della patria s’infervora perché non è riapparsa vestita del tricolore o dicendo che i rapitori sono un nemico da annientare, o affermando di voler d’ora in poi aiutare solo gli italiani che sono tali da generazioni, o scusandosi per aver rappresentato un costo per il Paese ed essersi collocata fuori dalla norma con la sua scelta, prima come cooperante, poi come credente. Lei desidera parlarne prima con la madre, ma alcuni non possono aspettare a sputare sentenze.
Dopo due mesi passati in casa a causa della pandemia, i leoni da tastiera e i loro guru pennivendoli credono di poter fare un’analisi dei 18 vissuti da Romano come prigioniera. Massimo Gramellini già al momento del rapimento nel novembre 2018 aveva scritto sul Corriere della Sera:«Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto». Non così lontano da Matteo Salvini, che twitta: «un ritorno più sobrio e riservato avrebbe evitato pubblicità gratuita a livello mondiale a questi infami». Libero denuncia: «Abbiamo liberato un’islamica. (…) Felice pure il suo parroco» e il Giornale: «Silvia l’ingrata». Ancora un uomo, il diversamente sovranista Vittorio Sgarbi, detta la linea alla donna: «Se mafia e terrorismo sono analoghi, e rappresentano la guerra allo Stato, e se Silvia Romano è radicalmente convertita all’Islam, va arrestata (in Italia è comunque agli arresti domiciliari) per concorso esterno in associazione terroristica. O si pente o è complice dei terroristi.» Di cosa dovrebbe pentirsi Romano non è chiaro, se di essersi convertita – spontaneamente, ha dichiarato – o di essere partita, o di averci fatto prendere un coccolone, chissà. La conversione, dicono gli investigatori secondo quanto riporta l’Ansa, sarebbe frutto «della condizione psicologica in cui si è trovata durante il rapimento». Eppure Romano ha detto: «È successo a metà prigionia, quando ho chiesto di poter leggere il Corano e sono stata accontentata».
E allora spuntano coloro che parlano con leggerezza di una Sindrome di Stoccolma (che peraltro non è classificata in nessun manuale di psicologia, perciò non è niente di più che un modo di dire), come era accaduto per Simona Pari e Simona Torretta, perché la conversione, a detta di alcuni improvvisati psicologi (che all’occorrenza sono pure virologi, epidemiologi, ingegneri, economisti e così via), si deve sempre ad una violenza, a un trauma, un po’ come l’omosessualità. Altri, più cauti, scrivono de “«l giallo della conversione», ma farlo significa optare per un lessico che sarebbe più adatto a descrivere un delitto. Ma quanto disturba l’abito che indossa una donna (come nel caso della giornalista Giovanna Botteri) o come porta i capelli (le attiviste Greta Thunberg e Carola Rackete) o rinuncia al reggiseno (ancora Carola Rackete)? Quanta islamofobia abbiamo introiettato in primis dalla classe politica e dalla stampa per sparare a zero su una donna prima ancora che lei decida come e se raccontarsi? E non è forse una forma di violenza psicologica l’essere tutti indirizzati ogni giorno verso l’idea che altri popoli ci stiano invadendo e stiano stuprando le nostre donne (cosa che gli uomini italiani dimostrano di saper fare benissimo da soli) o rubando il lavoro? D’altronde questo è il paese che ha fatto di “Sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana” una hit da classifica, dove una donna che si converte al cristianesimo non fa notizia ma viceversa sì. E che le native siano libere non è del tutto vero. I radicalismi dovrebbero farci paura tutti allo stesso modo e non dovremmo giudicare paesi dove non abbiamo mai messo piede, se non come coloni o per fare affari, mentre il nostro detiene un record di femminicidi. Se Silvia Romano dovesse fare altre scelte, sarà solo lei a poterne parlare. Nel frattempo però, smettiamo di vendere armi ai paesi islamici, e occupiamoci di Patrick Zaky, ancora in carcere in Egitto.