Dentro e fuori dall’Europa, autocrati e governi utilizzano il pretesto della pandemia per stringere la morsa sulla libertà di stampa. Oltre al caso dell’Ungheria, su cui si sono accesi i riflettori di Articolo 21 da quando il presidente si è fatto affidare poteri speciali, una situazione da tempo al centro dell’attenzione internazionale è quella della Turchia, che OBCT con il Resource Centre on Media Freedom in Europe ha analizzato mesi fa in uno special dossier di stringente attualità.
Si susseguono infatti controlli, lunghe detenzioni preventive, arresti lampo, censura: in Turchia la situazione continua ad essere critica per la libertà dei media e la libera espressione.
“Ciò che mi porta al pessimismo, e anche oltre, è che ormai, anche negli ambienti giuridici, ha ottenuto consenso e legittimità un atteggiamento sprezzante delle norme legali universali, che applica le leggi arbitrariamente senza alcun fondamento legale.”
Sono parole di Osman Kavala, l’uomo d’affari filantropo e difensore dei diritti umani protagonista di una lunga vicenda giudiziaria: prima accusato di aver tentato di rovesciare il governo tramite presunti finanziamenti alle proteste di Gezi Park del 2013 e poi assolto, è stato nuovamente arrestato con l’accusa di aver preso parte al golpe del luglio 2016. Da oltre 900 giorni, dall’ottobre 2017 con brevi sospensioni, si trova in carcere, in detenzione preventiva, in seguito a una serie di decisioni che OBCT, insieme ad altre organizzazioni internazionali ha denunciato più volte come inaccettabili. Le prime accuse furono formulate soltanto 16 mesi dopo il primo arresto e in questo suo ultimo messaggio del 21 aprile Osman Kavala non può che dirsi pessimista: “Non è più possibile per me mantenere il mio ottimismo”. Un ottimismo che lo portava a credere di poter servire da esempio, e che il suo caso potesse far cambiare le cose in Turchia.
Ciò che preoccupa Kavala, al di là della sua personale situazione, è il proliferare di “pratiche illegali” quali lunghe detenzioni preventive e riarresti subito dopo il rilascio che “violano sistematicamente il principio fondamentale della presunzione di innocenza”, pratiche che hanno colpito e stanno colpendo decine di attivisti e giornalisti, e che più in generale minano la libertà di espressione.
Rischiano ad esempio fino a 18 anni di carcere otto giornalisti che avevano raccontato del funerale di un agente dei servizi segreti turchi ucciso in Libia. Si tratta di reporter dell’emittente OdaTV, di giornalisti di un giornale filocurdo e di un altro giornale di opposizione, nonché di un reporter attualmente in esilio in Germania e di un impiegato del comune del distretto di Akhisar. Sono tutti accusati di aver rivelato informazioni riservate “legate alla sicurezza nazionale”, e questo nonostante il nome dell’agente ucciso fosse già stato reso noto da altri.
Senza che sia stata ancora formulata un’accusa si trova invece in carcere il giornalista di Rûdaw TV Rawin Sterk, arrestato il 6 marzo scorso mentre insieme ad altri colleghi era nella zona di confine con la Siria per documentare il passaggio dei rifugiati siriani dopo l’annuncio della Turchia di alleggerire il blocco alla frontiera. Una ventina di giornalisti erano stati arrestati, e subito rilasciati, ma Rawin Sterk è ancora dietro le sbarre, dopo che un’ispezione del suo smartphone aveva evidenziato alcuni suoi tweets critici nei confronti del governo.
La pratica degli arresti lampo è un altro strumento che possiede un forte “chilling effect”, un effetto paralizzante sulla libertà di espressione e sulla libertà di stampa. Secondo i dati del ministero dell’Interno ad esempio, soltanto negli ultimi 40 giorni, periodo di emergenza Covid-19 anche in Turchia, sono stati arrestati 400 utenti di social media con l’accusa di aver postato “commenti provocatori a proposito del COVID-19”: il ministero ha vagliato più di 6000 profili sui social media e ha bollato come “individui sospetti” più di 800 persone.
La morsa del controllo si stringe anche con la scusa della pandemia e il governo ha tentato di intervenire pesantemente sui social media: un provvedimento, poi ritirato, prevedeva di richiedere alle aziende straniere attive sul web di nominare un delegato che rispondesse ad eventuali rimostranze governative sui contenuti delle piattaforme. Chi non avesse risposto avrebbe avuto prima dimezzato poi quasi annullato l’accesso alla banda larga. Se fosse passata, la misura avrebbe riguardato social media attualmente usati da più di un milione di utenti in Turchia, quali Youtube, Twitter e Whatsapp.
I giornalisti e gli attivisti sono inoltre stati esclusi dalle misure approvate a metà aprile per alleggerire l’affollamento delle carceri: mentre quasi 100mila detenuti potranno godere della libertà vigilata o dei domiciliari, restano in prigione un centinaio di giornalisti e centinaia di difensori dei diritti umani, visto che le accuse a loro carico sono relative ad affiliazione terroristica e sovversione.
Nonostante il pessimismo, Osman Kavala, che come altri – tra cui lo scrittore e giornalista Ahmet Altan – conosce bene “la tortura immateriale innata nella pratica del riarrestare qualcuno subito dopo il rilascio”, decide di aprire a qualche spiraglio e lancia un messaggio ai suoi concittadini e a tutta la comunità internazionale: “Credo che nella società turca vi sia una sensibilità crescente verso la giustizia e verso lo stato di diritto”, per cui si augura che “l’ovvia ingiustizia contenuta nella recente legge sull’esecuzione delle pene renda più evidente la distinzione fra reati concreti e reati fabbricati politicamente, fra processi giusti e strumentalizzazione della legge, e che aiuti i cittadini a comprenderne le gravi conseguenze”.
Paola Rosà con la collaborazione di Fazila Mat
(OBCT, Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa)