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Turchia, quando il dissenso è ritenuto più contagioso del Covid-19

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Come noto alle cronache internazionali in Turchia, dal 15 luglio del 2016 – data del fallito tentativo di colpo di stato – ad oggi, abbiamo assistito ad una recrudescenza della repressione in particolar modo, ma non solo, nei confronti di giornalisti ed avvocati, accomunati dall’aver svolto in coscienza, libertà ed indipendenza la loro attività professionale e per questo temuti in quanto garanti della libertà di stampa e del diritto di difesa ed all’equo processo nelle loro varie declinazioni. Da quella data, nei loro confronti sono, purtroppo, all’ordine del giorno limitazioni all’esercizio della professione, arresti, e condanne, spesso arbitrari, con l’obiettivo di silenziarli e delegittimarne il ruolo di custodi della democrazia.

La consuetudine, tristemente consolidata anche prima del golpe, di accusare i dissidenti di appartenere o di fare propaganda per organizzazioni terroristiche armate, quale il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), fuorilegge perché ritenuto essere un’organizzazione terroristica, ha trovato di questi tempi nuova linfa nella contestazione della promozione o partecipazione a quella che le autorità hanno denominato Organizzazione del Terrore Gülenista (FETÖ).

Non poter incontrare il proprio difensore dopo l’arresto, trascorrere più di un anno in carcere prima del processo, trovarsi di fronte a capi d’imputazione generici, l’impossibilità di confrontarsi con i testimoni dell’accusa, subire, ciononostante, condanne pesantissime che possono giungere all’ergastolo senza possibilità di ottenere la grazia, in una parola processi sommari nei quali il diritto di difesa è solo un vuoto simulacro, è – secondo i report degli osservatori internazionali che partecipano alle udienze – la prassi.

Con riferimento al bavaglio imposto alla libertà d’informazione, dall’indice mondiale sulla libertà di stampa del 2020 stilato da Reporter Senza Frontiere (RSF) e pubblicato lo scorso 20 aprile, risulta come la Turchia – posizionata al 154° posto su 180 Stati considerati – abbia intensificato la censura sui media, con una marcata attenzione verso i siti web ed i social network, in una vera e propria caccia alle streghe contro le voci critiche, tanto da poter essere definita “il più grande carcere al mondo di giornalisti professionisti”.

Secondo RSF, dopo la soppressione di decine di organi d’informazione e l’acquisizione del più grande gruppo turco nel settore dei media da parte di una cordata filogovernativa, le autorità stanno stringendo la morsa su quel poco che resta del pluralismo, una manciata di media che vengono vessati ed emarginati. Inoltre, il coinvolgimento militare della Turchia in Libia e in Siria ed i fenomeni migratori che interessano il Paese hanno, da un lato, ampliato la gamma di argomenti soggetti a censura e autocensura, dall’altro, aumentato l’uso strumentale del sistema giudiziario a fini politici se solo si pensi che solo all’inizio di marzo ben 25 giornalisti sono stati iscritti nel registro degli indagati e 4 arrestati proprio per aver espresso il loro giudizio critico su tali argomenti.

I numeri della persecuzione sono impressionanti: nella lista aggiornata dei giornalisti imprigionati o ricercati tenuta dallo Stockholm Center for Freedom, si contano 88 giornalisti in carcere perché condannati a pene, nella maggior parte dei casi, molto severe, 73 detenuti in attesa di giudizio e 167 in esilio o costretti a non rientrare in patria. Dal luglio del 2016, inoltre, risulta siano stati chiusi 70 giornali, 20 riviste, 34 stazioni radio e 33 canali televisivi.

Sul fronte dell’avvocatura, dal rapporto su “La persecuzione di massa degli avvocati in Turchia”, stilato da The Arrested Lawyer Initiative, ONG che si occupa della difesa e di informare sulla situazione delle avvocate e degli avvocati turchi, sino al mese di febbraio di quest’anno, più di 1.500 legali sono stati indagati e 605 sono stati arrestati e posti in custodia cautelare, fra i quali 14 presidenti, o ex presidenti, degli Ordini forensi di pertinenza. Finora 345 di loro sono stati condannati alla pena complessiva di 2.158 anni di carcere per appartenenza ad un’organizzazione terroristica armata o per aver diffuso propaganda terroristica. Inoltre, 34 delle 1.412 associazioni di avvocati operanti in 20 diverse province del Paese sono state soppresse definitivamente in base a decreti emergenziali, ne sono stati confiscati i beni e la gran parte dei loro membri sono stati indagati sulla base delle leggi antiterrorismo.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, peraltro, ha sottolineato in un rapporto pubblicato nel 2018 come sia invalso un modello di persecuzione degli avvocati che rappresentano persone accusate di reati di terrorismo, per cui, pur nell’adempimento dei loro doveri professionali, si trovano ad essere associati alle opinioni politiche di chi rappresentano e sono, di conseguenza, perseguiti per gli stessi o per altri reati connessi di cui sono accusati i loro stessi assistiti.

E’ stata, altresì, ridotta drasticamente anche l’indipendenza degli Ordini forensi, prevista dall’art. 135 della Costituzione turca, attraverso un decreto che consente alla Presidenza turca di ispezionarli e di sospenderne il presidente ed i consiglieri.

Questa la fotografia vivida, e drammatica al tempo stesso, del giro di vite che sta segnando l’azione del governo turco nei confronti di coloro che considera come veri e propri nemici da perseguitare e ridurre al silenzio: in tale contesto i prigionieri politici, per rivendicare i loro diritti, arrivano al punto di mettere a repentaglio la vita stessa, come nel caso degli avvocati Aytaç Ünsal ed Ebru Timtik che, dal 5 aprile scorso, data in cui in Turchia si celebra la giornata dedicata agli avvocati, hanno iniziato in carcere uno sciopero della fame fino alla morte, rifiutando di assumere gli integratori di vitamine necessari per garantirne la sopravvivenza.

La pandemia da coronavirus non ha che esacerbato le condizioni di detenzione, anche in ragione del concreto rischio di diffusione del virus in istituti di pena sovraffollati quali quelli turchi.

Nonostante il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa – la principale organizzazione di difesa dei diritti umani, democrazia e Stato di diritto composta da 47 Stati membri, fra i quali la Turchia – abbia pubblicato il 20 marzo 2020 i “Principi relativi al trattamento delle persone private della libertà personale nell’ambito della pandemia del coronavirus (COVID-19)” – dai quali si evince, tra l’altro, come le autorità competenti debbano imperativamente concentrare i loro sforzi sul ricorso a misure alternative alla privazione della libertà personale in situazioni di sovraffollamento carcerario ricorrendo maggiormente a misure non detentive quali le alternative alla custodia cautelare, la commutazione della pena, la liberazione condizionale e la messa alla prova – il 14 aprile scorso il Parlamento turco ha, da un lato, approvato un disegno di legge che consente il rilascio di 90.000 prigionieri nell’ambito delle misure per frenare la diffusione di COVID-19 nelle carceri, dall’altro, escluso dal suo ambito di applicazione giornalisti, avvocati, attivisti e prigionieri politici.

Di qui l’amara considerazione per cui nella Turchia di oggi è più temuto il dissenso che il contagio da coronavirus, il che implica la necessità di informare su ciò che sta accadendo e di un intervento fermo della comunità internazionale e della società civile presso le autorità turche affinchè pongano fine ad una persecuzione contraria, oltre che al diritto internazionale, anche al senso di umanità.


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